Il mio nome è K.


Sono nata nel 1989. Il muro di Berlino cadeva, il popolo tedesco era in festa.
Non so dove fosse mio padre il mio primo giorno di vita. Non conosco nemmeno il suo nome.

Mi chiamo K. e sono nata in Israele, in una casa dalle pareti blu e con un giardino pieno di rose.
Oggi è il mio compleanno.
Compio ventidue anni.
Non ho ricevuto visite, vivo in una stanza d’albergo in un sobborgo di Parigi e non so quanto mi fermerò qui.
È da poco passata la mezzanotte, e mentre spegnevo delle candeline immaginarie ho deciso di scrivere la mia autobiografia.
A dire il vero non ho proprio deciso. Le parole sono venute fuori da sole. Non dipendono da me.

Il mio primissimo ricordo risale a quando avevo sei anni.

Mia nonna Mael stava facendo il pane e io la osservavo da sotto il tavolo, il mio rifugio preferito.
Mael aveva le mani rovinate dal lavoro e dalle ingiustizie subite. Le sue unghie erano spezzate, la pelle macchiata.
Ma quelle mani hanno scritto le poesie più belle. Le parole più dolorose.
Le sue poesie io le porto sempre con me.

Mael amava la musica gitana, “la musica degli zingari” come dicevano i nostri vicini, per schernirci.
Quando ci guardavano con disprezzo, Mael sorrideva e mi diceva: «K. alza la musica, balla, non ascoltare le parole di chi ha paura».
Mia nonna ha vissuto ovunque. È stata spesso in esilio, ma mai in silenzio, anche se gli uomini della sua famiglia le dicevano di non parlare, di non pensare.
Mael è stata spesso sola perché parlava, pensava, non aveva paura.

Rivedo ancora le sue mani che preparano il pane, i suoi occhi azzurri e pieni di pace mentre mi guardano, e mi sorridono.

Mael non è mai scappata e ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in Israele, nella casa dalle pareti blu.
Mia madre invece aveva paura.
A otto anni mi ha portata via, mi ha svegliata nel cuore della notte e mi ha strappata a Israele, al giardino pieno di rose, a Mael.
Da quando ho lasciato la mia patria non c’è più stata musica gitana, né il pane fatto in casa. Non ci sono più state le rose.
Contro la mia volontà sono fuggita di notte. Mia madre piangeva, diceva che dovevamo andarcene, che non c’era più posto per noi in Israele.
«Non ascoltare le parole di chi ha paura», diceva Mael.
Da quella notte non ho più ascoltato mia madre.

A diciotto anni ho trovato il coraggio e sono partita.
Ho girato solitaria ma mai sola l’Europa, correndo e ballando con le persone più diverse.
Ho vissuto e dormito ovunque: quando avevo fortuna qualche amico mi offriva la sua ospitalità; a volte invece mi sono addormentata sui pavimenti delle stazioni insieme ai clochard e ai musicisti di strada.

A vent’anni ho incontrato una compagnia circense e non l’ho più lasciata.
Ora, il mio mestiere è quello di trovarmi faccia a faccia con il vuoto senza averne paura.
Ogni sera, da due anni, sfido qualcosa che è più grande di me, volando sopra le teste di persone incredule che hanno pagato il biglietto del circo solo per assistere al mio volo.
Solo due volte ho rischiato di cadere, ma non ho avuto paura.

Una trapezista non deve temere il vuoto che si trova sotto di lei.
Una trapezista deve sorridere e volare.

Ogni sera indosso un sorriso diverso che cambio come i vestiti di scena.
Proprio come Hikmet conosco le separazioni, e se “alcuni enumerano a memoria il numero delle stelle” anche  io, come lui, so enumerare le nostalgie.

Mael è morta un anno dopo la mia fuga, e io non sono nemmeno potuta andare al suo funerale.
Ogni tanto mi chiedo chi abiti ora nella casa dove sono nata e non sempre riesco a darmi una risposta.

Ormai sono abituata a viaggiare e a non fermarmi mai.
Mi sono abituata a questa stanza troppo piccola e troppo fredda, dalle pareti anonime.
Mi sono abituata ad addormentarmi da sola in un letto ormai rotto, con le sue lenzuola ruvide.
Contrariamente a quanto si possa pensare, vivere in questa stanza non mi pesa.
Qui dentro ho tutto quello di cui ho bisogno.
Ho il mio quaderno sul quale scrivo tutto quello che mi passa per la testa.
Ho una bottiglia di vino, donatami da Andrè, il mio vicino di stanza.
Quando sono malinconica ne bevo un bicchiere e tutti i miei pensieri passano.
Ho le poesie di Mael.
Ho i miei ricordi.

In strada, qualcuno sta suonando una melodia tzigana. Mi ricorda la musica amata da Mael.
È triste, ma io non sono malinconica.

Questa mattina Olimpia, la mia barista preferita che ogni giorno mi offre il caffè, mi ha consegnato un biglietto.
«Leggilo questa notte. È il tuo regalo di compleanno».
Apro il biglietto e leggo: «Ci saranno banchetti e balletti, sorriderai spesso, non sarai mai sola».
Il sorriso e le parole di Olimpia, il vino di Andrè…

Penso che siano i regali più belli che io abbia mai ricevuto.

8 Comments

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  1. claudio

    Meraviglioso, triste, un viaggio nella fantasia e nei ricordi.
    Ti leggo e mi sembre di viaggiare, mi ricordi un film di Bergmann, un sogno di Fellini.

    Grazie, sei bravissima…..

  2. antonella

    racconto molto bello e scritto bene !si avverte una curiosa discrepanza traun enorme bisogno di amore e un altrettanto forte senso di rabbia di rifiuto di tutto o quasi.peccato !

  3. Cecilia

    Il tuo racconto è splendido! Raramente la parola scritta mi evoca immagini così nitide. K. mi ha molto ricordato la protagonista del film “Persepolis”, così decisa e fragile, forte dei suoi ricordi e delle sue origini, o almeno è così che l’ho percepita io. Splendido davvero, scusa se mi ripeto!

  4. S.

    Cecilia, cosa posso dire?
    Grazie.
    Anzi, grazie è troppo riduttivo.
    Grazie per il tuo commento e per le tue parole, mi hanno emozionata.
    Grazie davvero.
    K. è una ragazza, anzi no, è una donna decisa e fragile ( proprio come dici tu.)
    Rappresenta tutte quelle donne che, ogni giorno, combattono una guerra e non si tirano mai indietro.
    Queste donne non hanno paura della solitudine, queste donne, nonostante tutto, non si dimenticano mai di sorridere.

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