Ricordati di dimenticare le margherite


Anche la madre era morta. Il dolore l’aveva vinta e se l’era portata via come un bottino di guerra per infliggere un’ultima umiliazione a quegli occhi un tempo allegri, ma così tristi dalla morte del marito.

Una bambina di dieci anni veniva lasciata sola, in balia del destino. Un destino che sembrava essere stato troppo meschino con la sventurata fanciulla: l’unico bene che ereditò dai genitori fu un cespuglio di margherite giganti. Erano meravigliose: bianche, rosa, viola, blu. Ma restavano pur sempre fiori. E quei fiori, unico ricordo tangibile della propria famiglia, erano anche l’unica fonte di reddito che possedeva. Più di una volta, da piccola, aveva sentito sua madre parlare di quelle piante, ma non le era mai stato permesso di vederle, né tantomeno toccarle.
Dopo il rito funebre giunse il momento fatidico, così inatteso e assolutamente non desiderato, ovvero quello di trascinare le sue gambine esili e stanche fino alle mirabili piante per mettere in atto il volere di sua madre. Alla lettura del testamento, il notaio le aveva donato una busta, affidatagli dalla donna scomparsa prematuramente. La busta conteneva una lettera scritta a mano con una calligrafia incerta, tremante; c’erano delle istruzioni: c’era scritto che quelle che aveva sott’occhio non erano margherite normali, ma una clessidra. Avrebbero scandito il tempo e le avrebbero insegnato a vivere. In effetti, se una ragazza non fosse stata in grado di prendersi cura di una pianta, lasciandola morire, probabilmente non sarebbe stata in grado di mandare avanti una famiglia o una casa, né tantomeno il bestiame.
Le regole erano semplici, basilari, forse un po’ noiose e scontate, ma necessarie. Sole, acqua, fertilizzanti, panni impalpabili per proteggerle dalla grandine, una ranocchia e delle coccinelle per scacciare parassiti e insetti, una serpe o un rapace per allontanare le lumachine della pioggia. Inoltre la lettera indicava anche gli indirizzi delle erboriste a cui vendere le semenze dei fiori e le regge e i cimiteri da frequentare per il commercio delle pregiate margherite. C’era anche una scatolina metallica tutta incisa, bellissima, un manufatto di classe. Sembrava uno di quei contenitori per conservare il tabacco, ma non lo era. La mamma lo aveva definito “lo scrigno” e spiegava anche che al suo interno poteva trovare i semi degli esemplari migliori delle margherite. Ogni madre lo passava alla figlia primogenita, la quale avrebbe dovuto piantare una parte delle semenze, per poi rimpiazzarle con altre raccolte dai nuovi fiori nati. Essendo la fanciulla molto diligente e avvertendo un forte senso di vuoto, prelevò una parte di quella nuvoletta marroncina e la piantò. Mentre compiva questo delicatissimo e armonico rituale molti pensieri le vorticavano in testa. Com’è possibile che da dei filamenti così sottili e dall’aspetto sgraziato possano nascere le margherite migliori di tutta la contea? Inoltre, la maggior parte delle persone ammirano i colori della corolla, i turgidi petali dei fiori, eppure ignorano il processo magico e recondito che compiono i germogli sotto la terra, ne apprezzano il ciclo quando supera i tre quarti della sua durata. Ma lei la pensava diversamente. Con gli anni imparò che la parte migliore della natura non si specchiava nella volta celeste, non godeva dei benefici del sole,  bensì è rappresentata dagli intricati disegni delle radici, le oscure trame che si intrecciano nel buio fecondo.
Mentre pensava agiva. Dopo qualche anno nella contea arrivò un tornado che spazzò via buona parte della macchia e delle tegole che ricoprivano i tetti dei casolari. Lei non disperò, ma uscì (rischiando la vita) e fece da scudo alle sue amate margherite. Le innaffiò regolarmente, incamerò la luce del sole con giochi di specchi e corsi d’acqua per garantire un’adeguata illuminazione, raccolse le semenze e le vendette ai vari mercati per avere di che vivere. Intanto il tempo passava e la fanciulla cresceva. Quelle margherite su cui aveva a lungo pianto la morte dei genitori divennero il senso di tutte le sue giornate. La dedizione era tale che tutte le signore facevano a gara per averla fra le mura domestiche in veste di nuora.

La giovane donna scelse come suo consorte un boscaiolo, con la speranza che la sua vicinanza alla natura potesse unirli e aiutarli a conoscersi. Come profetizzato dalla madre, la giovane trovò nelle margherite una clessidra che scandiva tutte le tappe più importanti della sua vita: quei fiori erano gli stessi che le decorarono i capelli il giorno del fidanzamento, erano quelli che composero il bouquet del suo matrimonio, erano quelli che adornarono le culle delle figlie e dei figli avuti con il buon boscaiolo, erano quelli che gli stessi bambini portarono in dono alle maestre i primi giorni di scuola, erano gli stessi che, a loro volta, adornarono i capelli e composero i bouquet per i matrimoni delle figlie. Un circolo vizioso, fatto di leggi non scritte e istintive, che colpiva generazione dopo generazione, silenziosamente e meravigliosamente. Quelle margherite erano le stesse sulle quali le figlie piansero la scomparsa della madre, la fanciulla che per compiacere la propria mamma compromise la sua vita, dedicandola completamente ai fiori, alla lettera, al ciclo della natura, ignorando e reprimendo ogni desiderio e ogni capriccio. Semplicemente aveva fatto il suo dovere, quello per il quale era stata designata dai suoi predecessori.

Un mese dopo la sua scomparsa, proprio davanti al cespuglio di margherite giganti nel bosco, passò Ginevra, una giovincella innamorata, spensierata, diretta al capanno da caccia dove doveva incontrare il suo amato Tullio. Pensava che un vezzo nella sua dorata chioma fosse quello che ci voleva per essere notata dal fidanzato. Strappò un fiore e se lo pose sopra un orecchio.
Poi scappò via ridendo, vanitosa e bellissima.

In fondo era solo un fiore.

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