Lo chef che mise in pentola la città


Poche persone sanno che l’inventore della prima città fu un famoso chef di un’epoca molto lontana.

Appassionato di pietanze ricercate, trascorreva le sue giornate tra gli alberi a cucinare lumache aromatizzate e involtini di gnu impanati con terra rossa. Riversava nelle ricette le sue idee poco comuni, ma in genere era mosso da nobili ideali. Per questo gli amici lo consideravano strano ma, in ogni caso, innocuo.

Finché un giorno decise che avrebbe cucinato un piatto adatto a tutti i tipi di persone esistenti. Una ricetta mai vista prima, che avrebbe tenuto conto delle esigenze di ogni persona. E si mise a urlare “Diventerò sindaco!”. Qualcuno annuì, ma la maggior parte si chiese che animale fosse “il sindaco”. E da quel giorno iniziò la sua follia.

Comprò da un contadino centrotrentratré ettari di terra, a Km 0, e li adagiò in una grande pirofila. Con una paletta sistemò una muraglia glassata tutt’intorno. Aggiunse un tocco di case nel mezzo, spruzzandole qua e là: una due, tre, e arrivò a trentamila. Con stecche di torrone inventò i grattacieli. Fece una frittata con erba e cucchiai di acqua, che chiamò “parco”, e la mise in un angolo del piatto. Così, per accontentare chi amava il verde. Fece soffriggere in padella un po’ di tetti rossi, muri marroni, grondaie arrugginite, finestre lucide e opache. Poi versò in pentola un piccolo negozio di alimentari, di quelli che vendono le cose essenziali. Ne aggiunse un altro un po’ più grande. Ma perché no: un centro commerciale che potesse offrire qualsiasi prodotto! Negozi di accessori, di cappelli, decine di vetrine di scarpe. Perché, pensò, anche chi nasce con più teste e gambe del normale possa essere accontentato.

Lasciò raffreddare qualche minuto e poi buttò dentro una manciata di alberi. Ma poi ne tolse alcuni, perché non c’era abbastanza posto. Li sostuì con cartelloni pubblicitari perché si potesse avere sempre qualcosa da desiderare.

E mescolò, e mescolò, e mescolò finchè per caso non finì in pentola una persona (era una vecchia della capanna vicina che infilava sempre il naso dove non doveva). Vide che era cosa buona. Allora lo chef decise di buttare in padella anche i suoi amici, i suoi parenti e versò sopra una mousse di cemento. La colorò con strisce gialle e sopra sistemò degli enormi spiedini a forma di segnali stradali. Ma per rendere la pietanza più variegata, buttò dentro anche persone straniere dalla pelle nera con lentiggini, cinesi di razza albina, indiani con l’acne. Questi si andarono ad appiccicare tutti ad un lato della padella, tra uno spicchio di aglio e un tritume di cipolla. Siccome erano troppi, quelli avanzati li sistemò con pochi vestiti agli angoli delle strade, farciti di rhum.

Decise di preparare anche un soufflé di emozioni variegate, perché chi ci viveva in pentola potesse trovarci anche quelle. Ma mentre aspettava che il forno si scaldasse, pensò che le emozioni si potevano vendere e allora mise una manciata di cinema, un negozio di libri, un parco divertimenti, un bordello in periferia e compose un teatro fatto di pane speziato.

Poi, in ogni strada un bar, un caffè, un pub, un irish pub, un coffee shop, un ristorante, una pizzeria, un take away, un kebab kenoia e kebarb perché non ci si annoiasse mai.

Sciolse della vernice e sessanta cavalli a bagnomaria e inventò l’automobile. La buttò nella pentola. Prima una, poi due, tre e tantissime altre. E continuava a buttarne dentro nonostante facessero fumo e puzza di bruciato. E frullò il tutto, ma scoprendo che si creavano dei grumi tra auto (che chiamò “incidenti” perché duri com’erano avrebbero spezzato i denti appena morsicati) ci mise una manciata di ospedali.

Un povero bruco che capitava nei paraggi, scivolò per sbaglio nella padella e tentò ti uscirne in tutti i modi. Ma niente da fare. Si agitava, scivolava, grattava in fondo a quel miscuglio di roba. Tanto che si creò un tunnel sotterraneo. E nel suo spostamento disperato trascinò con sé alcune persone. Fu così che nacque la Metropolitana.

Si racconta che la stessa cosa avvenne per il primo aeroporto. Tortore, gru, pettirossi rimasti intrappolati in pentola, volavano da una parte all’altra in cerca di una uscita e si pensò allora di usarli come aerei.

E ancora la chef aggiunse animali glassati, cani, gatti scimmie, noccioline ed elefanti che rinchiuse in uno zoo. Poi compose un’entrata a pagamento per vederli. E mise delle scale, in legno, in acciaio, vetrate, scale mobili, mobili in scala uno dopo l’altro. E triturava, grattugiava, scioglieva e ogni tanto assaggiava pensando che avrebbe finalmente accontentato tutti. E quel miscuglio puzzava così tanto che le persone che lo vedevano lavorare così assiduamente, scappavano per non finire dentro a quel pentolone. Quelle che invece erano già dentro a quel ciarpame di ingredienti, camminavano tutto il giorno avanti e indietro. E si scontravano tra loro con la stessa fretta con cui lo chef aggiungeva sapori e muoveva la padella. Avanti e indietro. E camminavano a testa bassa fingendo l’un l’altro di sapere esattamente dove andare.

E giorno e notte quello chef aveva la testa infilata nel pentolone, nascosto dal fumo nero che usciva da lì dentro. E lo si sentiva urlare: Ci sta anche questo? Cistà cistà! E fu così che quel piatto venne chiamato “Città”.

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