Un altro giorno ancora


Lo guardo entrare nella gelateria, avvicinarsi al banco e voltarsi verso la ragazza.

I suoi gesti semplici, le sue espressioni, i suoi sorrisi sinceri sono qualcosa che ho metabolizzato.

Certe volte, riesco perfino ad anticiparli…

È come quanto afferma chi scia: una volta imparato, puoi stare anche anni e anni senza farlo ma, dopo le prime due curve, le gambe e il bacino ricorderanno il movimento essenziale. E sarà come non aver mai smesso.

Per me è stato così, con lui.

Anche se, fino a due giorni fa, erano diciannove anni che non lo vedevo.

 

Ci sono momenti che ti restano dentro, conficcati nella struttura malleabile del cervello. Piccole, insignificanti azioni, feroci e gelide sensazioni. Ondeggiano incerte nella marea delle esperienze successive, si aggrappano con una tenacia disperata; come un urlo soffocato che, però, il vento non è in grado di spazzare via.E ciò che fa più male, non è tanto l’assenza prolungata, la forzata distanza o come diavolo la si voglia chiamare: quello che distrugge, è l’indifferenza.

Ciò che tu chiami dolore, per l’altra persona è soltanto oblio.

Ciò che è per te perdita inestimabile, per l’altro è solo rinascita.

 

Gli anni che ho sepolto alle mie spalle, sono stati duri. Non so, onestamente, dove abbia trovato la forza di resistere, di andare avanti.

Una certa predisposizione alla finzione è stata un aiuto fondamentale. Un’incrollabile fermezza e una solida volontà mi hanno consentito di sottomettermi, sì, senza mai spezzarmi.

L’inganno che io fossi più forte di tutto quanto.

Più forte di quello che mi hanno fatto.

Più forte, del mio passato.

Ombre, turbini di nero, sgocciolio inesauribile di una memoria compromessa.

E mai che lui si fosse fatto vedere una sola volta…

 

Fatico a focalizzare il frammento preciso, e di questo mi rammarico profondamente.

Non ricordo le parole, né quanto fossero urlate o silenziate da un odio atavico.

Ciò che ho sempre davanti agli occhi sono le sue spalle che si allontanano, mentre io cedo al risucchio di una folla minacciosa. Di volti che non conosco. Poi, c’è soltanto il buio.

 

La psicoanalisi ha tentato di scardinare la serratura.

L’isolamento prolungato ha contribuito a scavare un solco.

Le necessità primarie hanno fatto il resto.

Tutte costruite, in verità, attorno alla fiammella tenace.

Il vero faro, l’assoluto centro che mi ha permesso di non scivolare nella pazzia più definitiva.

Qual è il nome della mia forza?

Vendetta.

 

Non mi prendo neanche la briga di fotografarli.

Già fa male capire quanto facile sia stata la sostituzione. Basta osservare come la guarda. Gli occhi sgocciolano miele, le labbra si piegano morbide mentre le bacia le guance.

Le fitte che provo le avevo messe in conto, ma non credevo potessero raggiungere, così maledettamente perforanti, il nucleo del mio essere.

I tre dottori hanno fallito, con le loro teorie.

I fogli che hanno scritto sono solo un’accozzaglia di parole forbite atte a salvaguardare la bontà dei loro tentativi. Una celebrazione della loro scienza applicata.

Spazzatura.

Ma, forse, non è colpa loro.

Più che altro, è merito mio.

Sono stata brava, veramente brava.

Stretta attorno alla mia fiammella, li ho fissati negli occhi, gli sono entrata nella mente e ho detto loro le frasi che volevano sentirsi dire.

Sono stata gentile, anche. E non ho mai creato casini.

Nessun rimprovero, nessun comportamento sopra le righe.

Diciannove anni da carcerata modello.

Diciannove anni che mi hanno permesso di affinarmi, progredire, ma non mutare.

E che, nella loro assoluta trasparenza, hanno concesso alla mia pena iniziale di scendere a patti con la giustizia. Di rimpicciolire e, con un guizzo finale, evaporare i contorni davanti alla perfezione di cui sono stata capace.

 

Non vivono insieme, questo l’ho scoperto subito. I tempi cambiano, i corpi si appropriano degli spazi in maniera differente. A ciascuno il suo. Ai miei tempi, una cosa del genere nemmeno potevi immaginartela. Gli anni ottanta stanno cambiando tutto, anche se non sanno quanti “grazie” debbano dire alle lotte della generazione di fine anni sessanta. Io ho letto tutto, mi sono documentata: tanto, di tempo ne ho avuto a volontà.

Sono stata a Woodstock, sull’isola di Wight; sono stata in piazza, fra i lacrimogeni: sciarpe su bocca e naso e pugno chiuso alzato verso il cielo. Sono stata nei covi segreti, nelle sparatorie assassine, nelle marce per i diritti delle donne.

La mia mente ha volato al fianco di quegli uomini e, soprattutto, di quelle donne.

Non li capivo fino in fondo, ma desideravo essere lì. A sporcarmi di sangue e sputi e manganellate.

A condividere la forza e le paure. Per cementare la mia fiammella. Per proteggerla.

 

Ci sono due cose che in tutti questi anni non mi hanno mai abbandonato, e la prima è quel grido disumano.

Un misto di disperazione, incredulità, terrore e coscienza che la vita stava andandosene via dal suo corpo.

Il mio unico mantra, per combattere quei decibel dilanianti, è stato ripetermi che se l’era meritato.

Troppe botte, troppe costrizioni. Troppo odio.

Odio chiama odio, e alla fine è stato così.

Sembra una riduzione semplicistica, ma questo è stato fin da subito il mio guscio protettivo. Quello sul quale ha poggiato il mio avvocato d’ufficio l’intera architettura difensiva al processo.

Che, com’era prevedibile avvenisse, si è sbriciolata come polvere putrida, maleodorante.

Nel millenovecentosessantaquattro la famiglia era ancora un’istituzione sacra. Orrore, pertanto, a chi la minacciava; punizione esemplare per chi provava con gesti inconsulti a scoperchiare quello che talvolta si agitava, inquietante, sotto l’intelaiatura perfetta.

Quindi, anche se al momento dell’arresto ero ancora minorenne, non passai per il riformatorio.

Trent’anni senza attenuanti di alcun genere, questo fu il verdetto.

 

Ma la vera domanda adesso è: chi si ricorda di me? Chi si ricorda della mia faccia tetra, dei miei lineamenti alterati dalle botte, delle mie braccia secche, ossute e piene di lividi?

Da vittima a carnefice, questo si era detto. Ma la vittima aveva dovuto pagare.

E per chi chiudeva gli occhi , davanti a tanto orrore?

Punizione? Rimprovero? Concorso di colpa?

Nemmeno per idea. Solo una fitta coltre di nebbia.

Indulgenza, invece, per la doppia catastrofe. Come se lui non fosse appartenuto a quelle tre stanze umide. Come se lui fosse stato sordo e cieco. Come se sua moglie fosse stata invisibile.

Come se quella tragedia fosse appartenuta a un’altra dimensione.

Altro combustile per la mia fiammella, non c’è che dire.

 

Che poi è tutta una mera questione di genetica.

Il bene si tramanda, e così avviene anche per il male.

Quindi, non ci stiamo tanto a stupire se una figlia si ribella alla violenza della propria madre bruciandola viva nel letto dove giace addormentata, sbavante e sopraffatta da un mix di chissà quali droghe e alcol.

Per certi versi, è come un cerchio che si chiude.

Per certi altri, ancora no.

 

Adesso le pone il braccio intorno al fianco, l’avvicina a sé con uno strappo delicato di tendini. Un ultimo bacio, lieve. Un’ultima annusata a quell’odore che senza dubbio deve essere gradevole. L’ennesimo confronto, per me. La sconfitta della sovrapposizione.

Perché con me, lui non è mai stato così.

È possibile che invecchiando si possa cambiare così tanto? Che un sentimento primario possa progredire con l’apparire dei capelli grigi?

Io mio padre me lo ricordo diversamente. Un assioma agli antipodi rispetto all’insieme di attenzioni, contatti e calore che quest’uomo propone con fare naturale alla sua nuova figlia.

Forse che la nostra famiglia fosse avariata a tal punto da generare il peggio del peggio?

Forse che, una volta liberatosi dalle zavorre di una moglie instabile e di una figlia psicopatica, l’uomo che una volta era mio padre sia riuscito a librarsi nel vuoto ascensionale, per ricadere a terra purificato? Nuovo e finalmente capace di esprimere amore?

 

Lo seguo a una distanza non compromettente.

Attraverso il marciapiede e accelero, per avere l’illusione di camminare al suo fianco.

Ho capito che è un uomo metodico, calmo e senza astio nel cuore. Ma potrebbe benissimo essere un comportamento di facciata. Anche mia madre d’altronde, a un contatto superficiale, poteva apparire come la donna perfetta; la sposa deliziosa, il perno sul quale ogni famiglia rispettabile anelasse ruotare attorno…

 

La seconda cosa che in tutti questi anni non mi ha mai abbandonato è stata la passione per la poesia.

Scrivere è stato un formidabile aiuto per riuscire a incanalare lo sforzo; un alleato pregiato per condensare la fantasia. Per inquadrare nitidamente quello che era, è e sarà il mio obiettivo finale.

Ce n’è una, la prima che ho scritto, alla quale sono particolarmente affezionata.

È in rima, e racchiude nelle sue brevi, infantili frasi il succo della mia storia.

La ripeto ogni giorno, dall’attimo in cui ho visto mio padre voltarmi le spalle e abbandonarmi al mio destino.

Lo faccio perché sono lucidamente conscia che senza questo ripasso la mia vita perderebbe di significato.

Lo faccio quando, come ora, permetto alla figura di mio padre di rientrare anche stasera nella sua nuova casa, consolandomi con la certezza che ho ancora un altro giorno davanti.

Un altro giorno, ancora, per progettare la sua morte.

Questo pensiero mi fa stare bene. Mi fa andare avanti, riempie il vuoto della mia misera esistenza.

Sostiene, con forza e fiducia, la mia fiammella.

Mi basta ripetere queste tre strofe e il buio che ho dentro, per un attimo fulmineo ed eterno, si rischiara all’improvviso, trasformandosi in meraviglia.

 

La fiammella non si spegnerà,

la cena di famiglia prima o poi arriverà

e il cerchio, finalmente, si chiuderà.

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