Sulla matematica: storia senza finale (per fortuna!)


“La matematica è intorno a voi. Ovunque, basta solo sforzarsi di restare ad osservare i suoi disegni perfetti ed eterni”.

Mi era suonata malissimo quella frase nel momento in cui il professore la pronunciò dinanzi a tutta la classe.

Io proprio non la capivo, la maledettissima algebra: la consideravo una materia fantastica prima che nelle operazioni, al posto dei numeri, ci mettessero tutto l’alfabeto.

“Perché tu credi che l’aritmetica abbia i suoi confini sui fogli di un quaderno o sulla lavagna. Credi che sia solo una questione di assiomi da saper snocciolare in ogni momento, meglio del pater noster,  frasi apparentemente logiche da venerare come dogmi indiscutibili. Questa non è che una singola faccia del poliedro…”

Ne diceva tante, troppe, di parole il prof. E per giunta io rimanevo un somaro anche dopo tutte quelle belle digressioni pseudo-filosofiche.

Il sei in pagella rimaneva un barbagliante miraggio, era aprile ed sentivo l’urgenza di trovare un piano per farmelo piacere, questo mucchio di calcoli, o almeno necessitava di un’ultima possibilità, un passo verso la pacifica convivenza.

Cominciai con il contare i gradini, le mattonelle che calpestavo. Poi toccò ai petali dei gerani sul mio balcone. E alle ventose sotto il tappetino della doccia, le frange del tappeto, gli anelli che componevano la catenina d’oro che mi avevano regalato per la Comunione e che da allora non mi ero mai tolto e…tante, tante altre cose composite, innumerevoli.

Ho scoperto che nel palazzo dove abito c’erano ventiquattro finestre, diciotto porte, quattro cancelli (uno per ogni lato del condominio), otto balconi con (di media) tre fioriere ciascuno e altri dati sostanzialmente inutili ai fini del mio benessere psicofisico (o forse deleteri?).

Avevo dunque trovato un antidoto all’effetto soporifero della matematica? Decisamente sì.

I voti migliorarono e passai l’anno senza problemi.

Bello, bellissimo: tutto attorno me profumava di algebra, geometria, aritmetica, logica. Ogni cosa aveva un senso e, soprattutto, non finivo mai di scoprire, non c’era nulla che non potessi contare, calcolare, mi sentivo davvero, davvero, davvero libero.

Fino a che, una meravigliosa e fatidica mattina di novembre, fredda, umida e nebbiosa, così come piacciono a me, non ricevetti una notizia, una di quelle che di solito si leggono sui quotidiani, al bar, sorseggiando il caffè: il direttore dell’azienda in cui mio padre lavorava come impiegato si era suicidato, gettandosi dal settimo piano di una palazzina in centro città.

La cosa non mi scosse particolarmente lì per lì: non conoscevo di persona quell’uomo, lo avevo visto tra sì e no un paio di volte, durante la sua pausa pranzo. Una persona normale, semplice, troppo semplice e normale per sopravvivere in  una situazione economica come quella che si era costruito attorno, da pessimo amministratore quale era.

Poi, l’illuminazione: che rumore fa un uomo che si getta da una palazzina? Che disegno formerebbero le onde sonore provocate dallo spezzarsi delle ossa?

Ammetto che la domanda che stava balenandomi in testa mi inquietava (e non poco), eppure non riuscivo a darmi pace: volevo conoscere quel tonfo sordo tipico dei corpi precipitati sotto la forza di gravità.

Naturalmente il mio desiderio di conoscenza non si era arrestato con quell’episodio: i miei calcoli si indirizzavano anche verso mete ben più liete, come gli orari di alba e tramonto, o quanto tempo (approssimativamente) ci avrebbe impiegato una foglia a percorrere il vialetto, sospinta dalle costanti raffiche di vento.

Ad ogni modo, iniziai ad avvicinarmi pericolosamente a tutti i precipizi che incontravo sulla mia via, a sporgermi dai balconi, a saltare con tutta la forza che avevo sulle grate… che stupido ragazzo incosciente.

Naturalmente avrete capito che, essendo qua, ora, a raccontare la mia storia, non ho ancora trovato una risposta per il mio quesito.

Non conosco ancora il fragore della morte, e non mi affanno più per cercare di scoprirlo. Continuo a fare i miei calcoli, le mie deduzioni e a dimostrare teoremi sulle piastrelle in cotto della mia cucina, con mia moglie che brontola di sottofondo.

“Perché non ci passi un po’ di sgrassatore e togli quelle macchie di unto invece che startene assorto a contemplarle?”

Il prof aveva ragione, la matematica mi circonda, mi culla verso nuove scoperte e (paradossalmente) mi aiuta ad abbattere i limiti, qui, nella realtà, ma…

Sono una causa persa: vi ho detto che ora ho voglia di volare?

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