A come Autovelox


L’obiettivo era dichiarato, l’ultimo atto di una guerra silenziosa cominciata già da tempo nel cuore di tutti gli abitanti di Roncofreddo. L’autovelox. Una scatola quadrata, color grigio metallizzato, sorretta da un palo nero e posta su un lato della strada extraurbana E45 che tagliava in due come un nastro grigio e impietoso l’appennino tosco-romagnolo. Le casse dell’amministrazione cumunale, causa la presenza dell’odiato marchingegno nel territorio di loro competenza, si rimpinguavano dei soldi provenienti dalle multe, la lentezza della macchina burocratica era inversamente proporzionale alla precisione quasi chirurgica con cui l’autovelox rilevava la seppur minima violazione dei limiti di velocità, la freddezza con cui senza chiedere permesso, senza presentarsi entrava nelle tasche dei cittadini, prelevava loro il denaro della multa e voleva farli pure sentire in colpa. Quella macchina diabolica falcidiava di multe gli abitanti di Roncofreddo, rilevando anche il minimo eccesso di velocità. Il gesto dei tre ragazzi, estremo e insospettabile, fu solo l’apice di un malumore che da anni viveva in paese e che col tempo si era fatto tangibile, lo si poteva respirare nell’aria insieme al monossido di carbonio e all’odore di asfalto bagnato quando pioveva.

In principio fu il signor Magri, ottantacinque anni, due fieri baffi che portava con orgoglio e un volto sicuro e volitivo che rivelava la sua gioventù di partigiano. Fu al bar Loretta, nella piazza centrale di Roncofreddo, che Magri entrò un venerdì di novembre di due anni fa, tenendo in mano una lettera della polizia e chiedendo a gran voce un gin lemon. Tutti si stupirono, Magri non beveva alcolici e soprattutto nessuno a Roncofreddo sapeva con certezza come si preparasse un gin lemon. Il mistero dell’improvvisa stramberia di Magri fu presto svelato, la busta conteneva una multa per eccesso di velocità, settantadue chilometri orari, due oltre il limite previsto per quel tratto.

-Solo due in più! – si giustificava ad alta voce Magri, battendo un pugno sul bancone di legno, visibilmente infuriato.

-E’ che uso poco il freno motore, e quando prendo velocità vado, e fanculo il resto. E quella strada è pure in discesa, lo sanno tutti.

Ma alla Polizia e al Comune non interessavano i discorsi sul freno motore, e pretesero i soldi. Magri non voleva pagare, minacciava di ricorrere al Tar tramite un amico avvocato che, promise, li avrebbe stesi tutti, ma rimasero solo parole. Magri continuava giornalmente a lamentarsi della multa nella pubblica piazza del bar. Spinti dall’esasperzione, alla fine i clienti del bar Loretta misero insieme la somma con una colletta e gli pagarono la multa, a patto che la smettesse di lamentarsi pubblicamente e smettesse, in second’ordine, di ordinare gin lemon, richiesta quest’ultima proveniente espressamente dalla barista. Ma ormai la bomba era esplosa e, gradualmente, un numero sempre maggiore di cittadini iniziò a fare conoscenza, suo malgrado, con la spietatezza dell’autovelox.

La goccia che fece traboccare il vaso fu l’inaugurazone di una nuova, minuscola, area verde, occasione in cui il sindaco sfoderò il suo miglior sorriso per illustrare la situazione virtuosa del bilancio comunale. Le forti braccia di due consiglieri comunali dovettero trattenere il corpo tremebondo di Magri il quale, nell’udire il sindaco menzionare la diabolica macchina, diventò rosso in viso e scattò in avanti, a fendere la folla diretto verso il palco su cui si ergeva il primo cittadino. Vibrava come una corda, mentre pronunciava sottovoce, quasi rivolta a se stesso, una cantilena. La folla presente, esasperata dalla crescita in maniera esponenziale delle multe per irrisori eccessi di velocità, iniziò ad acclamarlo e indirizzare fischi al sindaco. Eccolo finalmente, il malcontento, infrangere le dighe del buonsenso ed erompere in tutta la sua forza di protesta civile! Quel giorno Magri incrociò i suoi occhi iniettati di rabbia con quelli dei tre ragazzi che assistevano interessati alla scena: l’istantanea comunione che si creò tra loro risuonò come l’eco di un’investitura. I più fantasiosi riferiscono con una certa sicurezza di avere visto il labiale del signor Magri pronunciare le parole “andate, compite la mia vendetta”, ma la storia è quantomeno tutta da verificare. Quel che è certo, e nessuno di noi può negarlo, è che in quel momento nei cuori dei ragazzi si accese un proposito di vendetta contro il diabolico marchingegno succhia-soldi. Per questo, forse, si dice che sia sempre stato Magri il segreto mandante dell’operazione e che i ragazzi siano stati solo uno strumento, a servizio del paese intero. Nessuno seppe come si procurarono gli oggetti utilizzati, ma il nome di Magri può lecitamente essere inserito nella lista dei possibili fornitori.

Pochi erano a conoscenza della missione dei tre ragazzi, e molti di questi non credevano che si sarebbe tradotta davvero in realtà. La signora Paoli (madre di Adriano, il più grande dei tre) un giorno aveva udito distintamente suo figlio parlare della cosa con gli amici in camera, ma la donna aveva bollato quelle frasi vagamente minacciose come frutto del delirio cospiratorio tipico, secondo lei, di quella confusa fase dell’età che sono i diciassette anni e, più in generale, l’adolescenza. Anche il parroco, don Salvo, non capì l’importanza della cosa. Un caldo pomeriggio di luglio raccolse la confessione di Marco, lo sventurato del gruppo che non era riuscito a tenere il segreto, ma il prelato si limitò a sorridere, poggiare una mano sulla spalla del ragazzo e consigliargli di stare attento alle ragazze e smetterla, se possibile, di toccarsi così spesso. Insomma, nessuno dei pochi che sapevano dava solido fondamenti ai propositi dei ragazzi, così loro poterono lavorare tranquilli e in silenzio alla riuscita del loro piano, protetti da una spessa coltre di condiscendenza e disprezzo.

Infine, giunse la notte della vendetta. I cospiratori, forti dell’assenza della luna dal cielo, decisero di servirsi della via più rapida ma anche più rischiosa, l’imboscata. L’agguato notturno era diretto contro una macchina che nulla sentiva, nulla provava all’interno del suo agglomerato di circuiti elettronici, ma che con cinismo e con una fermezza quasi perversa abbagliava gli automobilisti con un debole flash e li condannava a pagare. Quello che si sa è che i ragazzi raggiunsero il luogo di notte, il diabolico strumento era stato posizionato ad arte all’incirca a metà dell’unico rettilineo che la E45 affrontava nelle vicinanze, così da sfruttare il più possibile la sua rilevazione. La signora Albertini, preda di una perenne e inguaribile insonnia, quella notte giurò di aver sentito dei rumori provenire dalla strada, come di botte contro qualcosa di metallico, rumori che riecheggiavano nella notte con cupi rimbombi. Poi una luce si era accesa da dove provenivano i colpi, ed ecco alcune lingue di fuoco alzarsi verso il cielo, o così le sembrava. Il giorno dopo l’autovelox fu trovato bruciato e distrutto da una pattuglia dei carabinieri che passava da quelle parti. Dopo accurati esami sulla carcassa cigolante che rimaneva, si dedusse che la macchina era stata dapprima malmenata, successivamente le era stato dato fuoco con una tanica di benzina e un accendino, entrambi ritrovati nelle vicinanze. La voce dell’attacco corse rapida e già la mattina dopo tutto il paese era a conoscenza dell’impresa dei ragazzi, e tutti erano ben decisi a proteggerli da qualsiasi minaccia esterna.

Quell’atto di luddismo estremo e disperato, fu subito chiaro alle autorità, portava di fatto la firma di tutta la popolazione. Gli abitanti di Roncofreddo sapevano chi era stato, lo si capiva dalle loro facce quando venivano interrogati, dal modo in cui evitavano di rispondere chiudendosi dietro a un protervo “non so niente”. Dopo qualche giorno di indagine, il caso fu arichiviato e la denuncia contro ignoti rimase parcheggiata tra i faldoni della questura: gli agenti non riuscirono mai a cavare nulla da quelle facce impenetrabili di gente di collina. I ragazzi, dal canto loro, dopo l’impresa iniziarono a venire trattati dalla gente con un misto di incredulità e ostentato rispetto, quasi che gli abitanti di Roncofreddo non credessero fino in fondo a quanto era successo e all’impresa compiuta. I tre ragazzi fuorono insigniti dei massimi onori cittadini e decorati con simboliche chiavi della città, in un cerimonia pubblica solenne e segretissima tenutasi, per ragioni di sicurezza, nella sala sotterranea del bar Loretta dedicata solitamente ai tornei di maraffone.

All’apice dell’entusiasmo, la piccola sala fu estasiata da Luca, il più lungimirante dei tre, il quale mostrò alla folla assiepata nel sotterraneo un pezzo di metallo dell’autovelox, sottratto la sera stessa dell’attacco. Un trofeo di guerra, lo scalpo metallico dell’avversario ormai debellato. I cittadini inziarono a passarselo di mano di mano, per toccarlo e guardarlo da vicino e vedere che era tutto vero, che il sogno era diventato realtà. Per ultimo giunse nelle mani di Magri, che lo reggeva ridendo con gli occhi iniettati di sangue, fissando con rabbia mista a senso di rivalsa quanto rimaneva dell’odiato nemico metallico. Per lui, per tutta la cittadinanza, quello non era solo metallo. Erano i resti, vivi e pulsanti, del nemico.

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17 Comments

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  1. Mattia

    In bilico tra realtà e vicende inventate. Molto bello, e molto immersivo. La E45 passa proprio fuori dalla mia finestra. Ogni notte, come questa notte, si sentono passare lontani i veicoli. Per un attimo mi sono chiesto se da qualche parte, lungo quella strada la fuori, questi fatti non stessero realmente accadendo.

    • Fabio Pirola

      Io mi sono ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto in un paesino italiano, dove i malumori verso l’autovelox sono esplosi in atti di vandalismo. E in quel caso, ovviamente, la MACCHINA era il nemico.

  2. Pit

    Quello che ho appena letto non è degno del XXI secolo. Vede, signor Pirola, lei non ha colto l’essenza del progresso, della scienza applicata alla tecnologia, che galoppante ha portato, e porterà, l’uomo alle regioni più lontane dello spazio e del tempo. Là dove nessun uomo è mai arrivato prima, potrei quasi dire citando un’iconica serie tv. Se tutti la pensassero come lei, intendo una mentalità arretrata e superstiziosa nei confronti delle nuove tecnologie, saremmo ancora accovacciati intorno alle carcasse di un cervo morto, cercando di strapparne la dura carne cruda e berne il sangue bollente, invece di arrostirla sopra un bel fuocherello. Quello che cerco di dirle è che le innovazioni e, quindi, i cambiamenti hanno bisogno di coraggio e di spirito di adattamento, altrimenti vivremmo immobilizzati, come gli uomini dei secoli bui del Medioevo. Se li ricorda vero quelle genti spaventate e fanatiche che popolavano le nostre lande secoli or sono? Le innovazioni, le macchine come scrive lei – usando per altro un linguaggio da film anni settanta- servono a rendere più facile la vita all’uomo, migliorarla, in modo che l’essere umano si possa dedicare a qualcosa di meglio che ha banali atti di luddismo. La sua opinione in merito rileva un provincialismo difficile da eliminare, piaga peraltro dell’Italia tutta. Se ha così in orrore la tecnologia, perché non se ne va a vivere nei boschi, lontano dalla civiltà e dalla legge? Perchè, mi chiedo, se non rispetta neppure la legge – base della società, ciò che ci distingue dalle belve irrazionali – non si ritira eremita nei monti aspri della Verna? No, invece da bravo radical chic, critica le macchine e poi pubblica racconti contro di esse su un sito web, attraverso internet, e grazie ad un computer, macchina per eccellenza. Cosa farà quando il suo costoso pc non eseguirà un suo comando(per la sua incapacità)?
    Lo romperà e gli darà fuoco?

    • Fabio Pirola

      Carissimo Pit,
      le risponderò brevemente. In questo racconto porto l’istanza di chi con il progresso non vuole avere niente a che fare, di chi preferisce la parola di una persona cara al nuovo modello di Iphone, di chi antepone una sana storia raccontata intorno al fuoco ad una sterile chat via skype. E’ proprio vero, caro Pit, che il nuovo ed il progresso sono necessariamente le cose migliori e più auspicabili per la società?

      • Pit

        “Le scienze, nel passato, hanno liberato la mente umana dalla tutela della teologia e dalla metafisica che, indispensabile nella sua infanzia, tendeva a prolungare tale infanzia indefinitamente. Nel presente, devono servire, sia con i loro metodi, sia con i loro risultati generali, a determinare la riorganizzazione delle teorie sociali. Nell’avvenire, costituiranno, una volta sistematizzate, la base spirituale permanente dell’ordine sociale, finché durerà sulla terra l’attività della nostra specie”. (da Considérationes philosophiques sur les sciences et les savants, 1825, in Systéme de politique positive)
        Ha capito, caro il mio Pirola?
        Il progresso è insito in noi, è un’elaborazione tutta umana del concetto principe delle specie viventi: l’evoluzione. Cose’è quell’intima spinta, quel vento leggero che aleggia nel nostro spirito e ci sprona a migliorare, sempre e comunque? E’ la novità, l’innovazione, la “poiesis” che alberga nell’intimo umano; è dentro di noi e noi siamo legati indissolubilmente a lei. Essa ci spinge a cambiare, a mutare, in modo che, adattandoci, possiamo sopravvivere. Ci permette di plasmare il mondo intorno a noi, lo rende civile e a nostra immagine: in definitiva senza il progresso non ci sarebbe neanche la sua adorata chiacchierata intorno al fuoco, anzi non ci sarebbe proprio la parola.
        Di conseguenza, senza comunicazione, non ci potrebbe neppure essere la tradizione – i comportamenti cristallizzati nel tempo che si ripeto uguali.
        Niente inventiva, niente progresso, niente parole, niente società, solo caos.
        Quando quei frammenti di codice genetico si sono uniti casualmente in una forma più complessa; quando queste primitive forme di vita, dall’acqua, hanno colonizzato la terra, l'”aere”, i meandri infernali delle terra, eternamente incandescenti; e quando, infine, i primi uomini – stanchi di non essere compresi, desiderosi di comunicare e di imporre la propria auto-consapevolezza – hanno dato vita a forme ancestrali di codificazione linguistica? Io le rispondo: quando è iniziato il progresso.
        Le macchine non esprimono altro che il desiderio dell’uomo di creare: l’uomo-creatura si fa demiurgo; un benefattore, un benevolo distributore di conoscenza. E’ una sovrabbondante forza creatrice, così come lo è il progresso.

        • Fabio Pirola

          Gentile signor Pit,
          anche il suo è un tipo di luddismo, del tipo più subdolo e strisciante, è il luddismo di chi è pronto a demolire chiunque e qualunque cosa, in nome dell’idea cieca del progresso. Viva il miglioramento, l’evoluzione, ma che vada a braccetto con il rispetto dell’umanità. Seno, ben venga la barbarie.

  3. Sara

    Bravo Fabio, come sempre!
    E approvo quello che hai risposto al signor Pit, in quanto, in ogni caso è solo un racconto, e come hai detto sopra, ispirato a fatti realmente accaduti, non inventati da te come moto di “ribellione” verso la tecnologia.
    La tecnologia è una gran cosa, ma il problema non è in essa, ma in chi la usa, e soprattutto come!

  4. Mareva

    Più bello di molti altri tuoi scritti.
    Quasi caricaturale. A me, il Magri, ha ricordato tutti i vari Signor Pit che per legittimare la loro esistenza devono, necessariamente, essere contro. Il progresso, l’involuzione, i politici, gli autovelox, le mezze stagioni che non ci sono più.
    Aggiungo un piccolo pensiero personale: l’evoluzione ci ha sì permesso di arrivare dove siamo e proprio per questo spero anche che ci permetta di discernere tra progresso tecnologico utile e progresso tecnologico nocivo. All’ambiente. All’umanità. Ai cittadini.

    • Mario

      Si, dietro alla caricatura si cela un discorso piu profondo sulla tecnologia e il suo senso… e la lotta esasperata dovrebbe essere sostituita dalla razionalita, ma mon sempre è così..

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