La guerra di Andrea


« Che cosa vuoi veramente, Andrea?»

Quante volte mi è stata fatta questa domanda e quante volte io sono rimasto in silenzio.
Forse nessuno ci crederà, ma è proprio grazie a questa domanda che la mia vita è cambiata.
Era il 1991, lo ricordo bene, ed ero in guerra. Lo ero sempre stato, ma quell’anno la guerra, che fino ad allora era stata “fredda”, si trasformò in una lotta “armata”.
Ricordo ancora che i R.E.M cantavano “Losing my religion” e che in televisione i tg trasmettevano le immagini della guerra del Golfo. Fuori stavano combattendo una guerra fatta di eserciti e di morti, e io guerreggiavo contro i miei genitori, la scuola e tutte le persone che si erano dimenticate l’importanza di sorridere.

Non avevo carri armati né uniforme, ma solo i miei diciassette anni portati con rabbia e la testa piena di sogni.
Ecco, i miei sogni erano le mie uniche armi. Sognavo un mondo diverso e, nonostante la giovane età, avevo deciso di ostacolare il controllo e di abbattere il muro di normalità e convenzioni che altre persone avevano creato, senza chiedere il permesso né a me, né a tutti gli altri ragazzi che non avevano nulla a che fare con la normalità stabilita dal pensiero comune.
Certo, la mia era una guerra anonima, ma non per questo meno violenta.
Ogni giorno quella che io chiamavo casa si trasformava in un luogo nemico, e la mia stanza era l’unico posto nel quale non sentissi il bisogno di difendermi dagli attacchi di mia madre o dagli sguardi severi di mio padre.
«Perché non sei come tutti gli altri? Perché sei diverso? Fai di tutto per renderti la vita ancora più difficile».
Ero nato in un posto nel quale la normalità andava difesa a tutti i costi, e la diversità era vista come una minaccia.
Avevo deciso di scendere in guerra per questo, e per difendere quello in cui io credevo. Ricordo che mio padre più volte mi aveva accusato di non credere in niente, ma questo non era vero.
Credevo nel potere delle parole e il mio sogno era vivere grazie alle storie che scrivevo.

Ero davvero convinto che un giorno sarei riuscito ad andarmene via e che la mia guerra sarebbe finita, prima o poi.
«Smettila di riempirti la testa di illusioni, dovresti saperlo che non si vive grazie ai sogni…»

Vi dico solo questo: se non avessi avuto i miei sogni, non sarei mai sopravvissuto alla mia guerra.
Grazie a quelle che mia madre chiamava “illusioni”, riuscivo a scappare e a rifugiarmi in un luogo sicuro. Trovavo rifugio fra le pagine dei miei libri, e le canzoni che ascoltavo in quel periodo mi davano conforto.
Quando combattevo, quando i miei compagni di classe mi deridevano, quando i miei genitori non capivano quello che cercavo di dire loro io avevo sempre in testa la voce di Morrissey che cantava:
«Armoniosamente uniti, camminiamo da amanti in controluce: no, questo amore non è un amore diverso, è diverso perché riguarda noi…»
Questo era il mio inno di battaglia.
Senza non aveva senso lottare.

Sconfortato, arrivai anche a pensare che avrei sempre combattuto senza risultato contro i miei genitori. Lottavo, ma la mia situazione non cambiava. Riuscivano sempre a vincere. Avevano il potere di farmi sentire sempre inadeguato.
Ma una sera di febbraio finalmente qualcosa si ruppe.
«Mi chiedo che cosa vuoi fare nella tua vita. Forse non arriverai mai da nessuna parte, tu…»
La guerra era arrivata alla battaglia decisiva.
«Che cosa voglio? Vi interessa davvero saperlo? Io voglio girare il mondo e non tornare più. Voglio vivere con leggerezza e alla giornata. Voglio vivere la mia vita “diversa”, come la definite voi, senza dovermi sentire costantemente sbagliato. Voglio vivere di notte e scrivere di giorno, perché io desidero fare solo questo. Le parole e i loro colori popolano la mia vita e io non posso fare altro che scrivere. Quando scrivo mi trasformo in energia. Pura e incostante energia. Voglio urlare da una macchina in corsa che qualsiasi cosa accadrà io sarò felice. Voglio capire chi sono veramente prima di dimenticarlo. Voglio sentirmi libero di correre. Non voglio fermarmi mai. Riuscite a capirlo, questo?»
Le mie parole erano cadute sopra i miei genitori come delle bombe. Avevo distrutto la loro trincea e li avevo privati di ogni difesa. Avevo mostrato loro la verità e questo li aveva disarmati.
Mentre io stavo combattevo tra le mura domestiche, il tg della sera mostrava le immagini dei bombardamenti avvenuti in giornata. La guerra stava andando avanti e il mondo continuava a girare, indifferente come sempre.
Anche la mia guerra continuava e io la stavo conducendo con l’unico strumento a mia disposizione: le parole.
Ero un soldato, certo, ma non mi ero mai illuso di riuscire a vincere la mia battaglia.
Dopo quest’ultimo attacco i miei genitori rimasero in silenzio. Finirono la loro cena e non mi rivolsero più la parola.

La guerra del Golfo terminò quello stesso febbraio. Tutti i giornali ne parlarono e presto ogni libro di storia l’avrebbe raccontata. La mia guerra invece continuò ancora per due anni e nessun libro la menzionò mai.
Se prima i miei genitori mi rivolgevano parole dure e di rimprovero, lentamente smisero di parlarmi. Furono anni difficili, ma avevo ancora i miei sogni e solo grazie a essi sono riuscito ad andare avanti.
Alla fine del liceo ho conosciuto alcuni ragazzi, in compagnia dei quali sono riuscito ad andare via di casa. Mi sono trasferito in una città diversa, nella quale non esistono tutti i pregiudizi che hanno segnato la mia adolescenza.
Ora ho trentasette anni e conservo un ricordo vivido della mia guerra. Quella che mi ha portato sin qui, a vivere la vita che ho sempre voluto. Sono diventato uno scrittore e presto uscirà il mio primo libro.
Sento raramente i miei genitori ma, in fondo, credo che non capirebbero la vita che ho scelto.
Forse nessuno si ricorderà mai di me e di queste mie parole, ma ho pensato che fosse giusto raccontare la mia storia, perché ogni battaglia deve essere ricordata.
Ogni battaglia deve essere combattuta.

Di quegli anni, oltre al ricordo, non conservo più nulla.
I miei capelli rossi, lentamente, stanno diventando bianchi e il mio viso è invecchiato. Le rughe sulla mia pelle sono il segno della guerra che ho combattuto.

Ma ora, finalmente, dopo tanto tempo lo posso dire: la guerra è finita.
Almeno per me.

10 Comments

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  1. Jacopo

    ciao! ho quasi vent’anni e mi sono venuti i brividi a leggere della tua guerra. sarà l’immedesimazione…
    complimenti vivissimi, sia per la tua guerra che per il modo di scrivere, io non riesco ad essere così lineare.

    ciao!

  2. Serena

    Volevo rappresentare una guerra “interiore” perchè, a volte, questo tipo di guerre passano inosservate…
    Scrivere permette di osservare e di capire quello che ci circonda! Grazie ancora!

  3. hidegkuti

    parlando di adolescenza spesso si rischia di dire tante banalità e devo ammettere che questo l’ho trovato un modo molto originale… complimenti!

  4. claudio

    Come sempre, esco dai tuoi racconti inebetito e, sinceramente, provato. Avrei voluto, per anni, fare come Andrea ma la paura ed il conformismo mi hanno sconfitto e fatto diventare grande. L’unica cosa che mi resta sono i sogni ed il tuo scritto me li ha rievocati. Grazie, mi hai fatto tornare bambino.
    Ti abbraccio

  5. Serena

    Grazie per questi commenti, li apprezzo molto!
    E’ giusto parlare di ogni tipo di guerra… Anche questa è una lotta “armata”, solo che in questo caso le “armi” sono le parole di Andrea.

  6. antonella

    scritto tutto da sola?interessante ,c’e tanta rabbia tanto dolore tanta paura tanta voglia di vivere capire gli altri e se stessi non e facile ma si puo provare caio

  7. Serena

    Sì, l’ho scritto da sola!
    E’ vero, c’è tanta rabbia… Molto spesso quando si parla di guerra si è portati a pensare a qualcosa di fisico, a un combattimento armato. In questo caso, la guerra è “interiore” e, come dice Andrea, le sue uniche “armi” per combatterla, gli unici strumenti a sua disposizione,sono le parole.

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