Il ruggito del coniglio, libri e politically correct – Marco Presta, lo “stakanovista pigro” di Radio2


Alcuni giorni fa, io e Ambra Oberti abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Marco Presta. Un personaggio che non crediamo abbia tanto bisogno di presentazioni: romano, classe 1961, Marco Presta va in onda praticamente senza sosta dal 1995 con Il ruggito del coniglio, in coppia con Antonello Dose. Diplomato all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”,  ha lavorato con maestri quali Andrea Camilleri, Luca Ronconi e Aldo Trionfo.

Molti di noi lo ricordano anche per aver condotto, nel 1997, un’edizione di Giochi senza frontiere, con Mara Teresa Ruta e (ovviamente) Antonello Dose. Il debutto in campo letterario di Marco Presta arriva nel 2009 con Il paradosso terrestre, seguito nel 2011 da Un calcio in bocca fa miracoli. Qui su Discorsivo abbiamo parlato del suo Accendimi, uscito nel 2017, e della sua ultima fatica letteraria: Fate come se non ci fossi, pubblicato nel 2019.

Abbiamo fatto due chiacchiere con lui, e ci ha risposto con schiettezza e con la consueta ironia, come state per scoprire.

Marco Presta durante una puntata de Il ruggito del coniglio, in onda su Radio2 (Credits: Rai)

Marco Presta durante una puntata de Il ruggito del coniglio, in onda su Radio2 (Credits: Rai)

Eccoci, cominciamo la nostra intervista. Come abbiamo visto, lei in questi anni ha sperimentato tanto: teatro, tv, radio, letteratura… Quale di questi mezzi preferisce?

La radio è una frequentazione più antica, ormai da più di un quarto di secolo! La scrittura invece è più recente, per motivi che ancora non riesco a spiegarmi. Non so esattamente perché ho cominciato a scrivere a 40 anni. C’è una connessione, però: la radio, secondo me, è in qualche modo una forma di letteratura: si basa sulle acrobazie fatte con le parole, e ha un grande potere evocativo – così come la pagina scritta. Scrivere mi piace tanto, e in questo momento è la cosa che preferisco in assoluto. Mi piacerebbe avere più tempo per farlo, senza dovermi svegliare alle 5 di mattina. Però è un cosa che amo fare e che di qui a qualche anno – quando per “intrasportabilità fisica” mi faranno smettere di fare radio – penso che sarà l’ultimo giocattolo che mi rimarrà.

Per quanto riguarda la tv, c’è stata l’esperienza di Giochi senza frontiere, quasi 25 anni fa. Com’è andata?

È stato un errore di ingenuità. Era il 1997. Io e Antonello Dose eravamo alla seconda edizione de Il ruggito del coniglio. Il programma in radio aveva avuto un impatto veramente importante, ed era diventato subito un successo. E così arrivò la proposta di condurre Giochi senza frontiere. Avevamo dei ricordi molto teneri di quel programma: era quello della nostra infanzia, di un’Italia… più ingenua di quella del 1997. Ci divertivamo a guardare degli adulti vestiti da pirla, che si inseguivano su un’asse di equilibrio con delle robe di gommapiuma addosso. Mi ricordo che lo guardavamo tutti e ci divertivamo molto, che tifavamo…

Marco Presta e Antonello Dose a fine anni Novanta

Marco Presta e Antonello Dose a fine anni Novanta (Credits: Giochisenzafrontiere.net)

In che senso è stato un errore di ingenuità?

Era un’Italia già diversa, quella del 1997, già incattivita dalle tv di Berlusconi, già involgarita – o che cominciava a involgarirsi nel gusto. Per cui salimmo su un treno che andava già verso un binario morto. In più, eravamo improponibili, sia per ingenuità che per incapacità. Fu un’esperienza fondamentalmente molto faticosa, molto negativa e che soprattutto ci precluse altre esperienze televisive, che potevano essere un poco più… corazzate. Più garantite, diciamo.

Tornasse indietro, quindi, non la rifarebbe?

Dopo quella cosa lì, e dopo il grande successo della radio, tutti (o quantomeno qualcuno) ebbero modo di dire: “Beh, ma in radio sono un’altra cosa”. Abbiamo pagato quell’esperienza e in parte la paghiamo ancora; per quanto tutto sommato andiamo avanti, fregandocene abbastanza di com’è andata. Il nostro lavoro è la radio, oltre a quello da autori. L’esperienza della conduzione di Giochi senza frontiere non la rifarei, tornassi indietro. Certo ora è facile da dire, ma come del resto succede con il 90% delle baggianate che si fanno nel corso della vita.

Il ruggito del coniglio compie 25 anni il 2 ottobre…

Il 5, in realtà! È su Wikipedia che hanno sbagliato data. Ma se è per quello dice anche che il programma è iniziato come un settimanale, quando è sempre stato quotidiano!

Ah! Quindi grazie a lei avremo un articolo più preciso di Wikipedia!

Eh, sì! Ma vi dirò di più, a proposito di Wikipedia: una volta pubblicarono una mia foto a un firmacopie con vicino un ragazzo. Nella didascalia c’era scritto “Marco Presta e suo figlio Giacomo”. Mio figlio la vide e disse: “Ma chi è questo?!”!

Tornando al Ruggito: da dove nasce il nome? Forse è tratto da Il ruggito del topo, il film con Peter Sellers?

No, no: semplicemente ci piaceva l’accostamento. Sapevamo dell’esistenza del film, ma volevamo mettere insieme due parole che avessero un effetto comico paradossale. In seguito “scoprimmo” anche un significato ulteriore: il nostro è un programma che dà la possibilità al pubblico di esprimere la propria opinione. Siamo un po’ tutti conigli, noi persone comuni; e quel programma dà la possibilità ai conigli di ruggire, di parlare per radio.

Parliamo del suo compagno di avventure, Antonello Dose. Come vi siete conosciuti?

Avevamo 15 anni, e ci siamo conosciuti in una parrocchia di Roma sud che si chiama san Policarpo. Frequentavamo i gruppi giovanili. E lì abbiamo cominciato a infastidire il parroco insieme, a fare teatro e cose simili. Poi io ho fatto l’accademia teatrale, lui il teatro di ricerca, e ci siamo ritrovati quando abbiamo fatto un piccolo programma per un’emittente locale romana. Poi abbiamo collaborato con Enrico Vaime, e da lì, dopo qulche anno, è partita la radio. Insomma, la nostra nasce come un’amicizia, molto prima che come una collaborazione professionale.

Antonello Dose in onda su Radio2 con Il ruggito del coniglio

Antonello Dose in un momento de Il ruggito del coniglio (Credits: Rai)

Qual è la cosa più particolare che le viene in mente legata a Il ruggito del coniglio? Sicuramente di cose bizzarre ve ne saranno capitate tantissime nel corso degli anni!

Di continuo! Ci ha chiamato gente in tutte le situazioni! Ci hanno telefonato donne che stavano per entrare in sala parto, chirurghi che operavano, persino un signore che guidava un carro funebre e stava trasportando proprio in quel momento il… caro estinto. Questo è la radio: la possibilità di ascoltarla e di partecipare in qualunque momento della giornata, in qualunque momento della tua vita. È per questo che la gente le vuole bene: crea un’intimità, una vicinanza che nessun altro media crea.

Quindi le cose strane sono diventate… un po’ meno strane.

Nel corso degli anni è successo talmente tanto che si è tutto normalizzato. A un certo punto non interpreti più come “strane” certe cose. Come dire: se vivi nel villaggio dei puffi, non ti stupisci più di vedere omini blu che corrono sotto i funghi, ecco! Noi ne abbiamo quasi una al giorno: politici che si arrabbiano, generali che ti minacciano di volerti cacciare dalla Rai… succede di tutto. Non ci siamo annoiati, diciamo. E abbiamo avuto uno specchio dell’Italia straordinario. A volte divertente, a volte spaventoso.

Qual è il suo personaggio preferito tra quelli interpretatati da Max Paiella durante Il ruggito del coniglio? (Ambra ha un debole per Vinicius Du Marones e le sue canzoni sugli oggetti di tristezza…)

Beh, sono talmente tanti…! Vinicius forse è il primo in assoluto. È un personaggio che mi propose tanti anni fa e ci siamo poi divertiti a scriverlo, perché è un filone inesauribile! La verità è che ne bruciamo tanti, perché dopo un po’ diventano di routine. Quando succede li devi cambiare. L’unico che non ha subito questa cosa è Vinicius. Ultimamente lo facciamo su richiesta, on demand: la gente ci propone un oggetto di tristezza e noi in diretta scriviamo una canzone e poi la cantiamo. Però ci divertiamo anche a cambiare. Ultimamente abbiamo fatto un virologo. Adesso i virologi sono una nuova religione, come Scientology: Virology.

E ce ne sono 60 milioni, a quanto pare.

Ma sì, oggi sono quasi tutti virologi. Il nostro è un virologo che arriva a parlare del virus e poi naturalmente si mette a cantare. Perché quando li porti in televisione… il fatto che qualcuno sia uno scienziato non conta più, conta che sia in tv!

Passiamo al Marco Presta scrittore. Il suo primo libro è stato Il paradosso terrestre. Prima è stato pubblicato da Aliberti, poi è uscito con Einaudi dal 2012. Che è successo?

C’è stato qualche problema con Aliberti, e ci siamo separati. Einaudi ha comprato poi i diritti, che nel frattempo erano tornati in mano mia. Io avevo già preso accordi con loro per Un calcio in bocca fa miracoli, e a quel punto Einaudi decise di ripubblicare Il paradosso terrestre.

Com’è nato Il paradosso terrestre?

La copertina de Il Paradosso terrestre, libro d'esordio di Presta

Il paradosso terrestre, di Marco Presta (Credits: Einaudi)

Volevo tentare di scrivere il primo libro. Avevo paura di iniziare con un romanzo: mi sembrava una montagna difficile da scalare. Del resto avevo solo 48 anni… un’età ancora di sviluppo! Quindi ho scelto i racconti, che trovo siano la forma più adatta per il racconto umoristico. Non a caso Achille Campanile o Woody Allen l’hanno scelta spesso. Oggi i racconti “fanno paura” agli editori, e se ne pubblicano pochi. Riuscii a convincere Aliberti a pubblicarli e il libro uscì in pochissime copie. Però venne letto da Luciana Littizzetto, che mi contattò per farmi i complimenti.

Vi conoscevate già?

Adesso ci conosciamo e collaboriamo, ma all’epoca no. Le chiesi di presentarmi il libro a Torino, e lei lo fece. Mi disse anche “Lo faccio leggere a una mia amica, editor di Einaudi”. Le cose sono andate così. Poi parlammo del libro nuovo, Un calcio in bocca fa miracoli, e venne pubblicato anche Il paradosso terrestre.

Quella del racconto è una forma a cui è tornato in qualche modo anche con l’ultimo libro, Fate come se non ci fossi.

Mi piace molto scrivere racconti. Non so se avrò il coraggio di farlo ancora, perché (come dicevo) gli editori pensano che siano pericolosi, difficili da piazzare: la gente pare che preferisca i romanzi. Però è un forma narrativa molto appagante, e molto adatta a chi scrive in maniera umoristica. Mi piacerebbe farne un altro. È un libro che ho amato molto, ma forse è il meno letto dei miei. Non che sia Wilbur Smith, eh, ma gli altri libri sono stati abbastanza fortunati. Il paradosso terrestre è un po’ il figlio più problematico. Ma forse è quello a cui voglio più bene.

Accendimi è stato “l’esordio” di Marco Presta qui su Discorsivo, ed è una vera dichiarazione d’amore per la radio. Un mezzo che è riuscito a sopravvivere alla tv, a internet… qual è la sua forza?

La copertina di Accendimi, di Marco Presta (2017)

Accendimi, di Marco Presta (Credits: Einaudi)

È una forza enorme e forse addirittura accresciuta negli ultimi anni. La tv sta vivendo un momento più problematico: i social in qualche modo l’hanno messa in crisi, mentre hanno rafforzato la radio. Oggi la radio ha un bacino di utenza che la tv non ha: la ascoltano oltre 35 milioni di persone al giorno. È il mezzo più moderno, e più veloce: basta un telefono per collegarsi e per dare la notizia immediatamente. La tv ha bisogno di troupe, collegamenti e tutto. È anche il mezzo più vicino alle persone, quello che ti accompagna mentre vai al lavoro o lavi i piatti. Non è un caso che le ultime campagne elettorali americane siano state giocate principalmente sulla radio, prima che sulla tv, e che i grandi editori abbiano investito tutti sulle radio. L’Espresso, Agnelli, Berlusconi… cercano le radio perché portano anche all’editore una quantità di soldi spaventosa. Con il supporto dei social poi è diventata veramente dirompente, anche se adesso c’è anche la tendenza a riprenderla, a “televisionizzarla” un po’.

Cosa ne pensa di questo?

È una tendenza che non mi piace, per quanto pare sia incontrovertibile. La radio per me meno si vede e meglio è (l’ho scritto pure nell’ultimo libro). Però tutti lo fanno, e lo faremo anche noi dall’anno prossimo: su Raiplay ci sarà la versione video de Il ruggito del coniglio. Faremo finta di niente, come se non ci fossero le telecamere, ma il vedere non giova al potere evocativo della radio. È divertente ascoltare certe cose, come quelle di Max Paiella, ma vederle non aggiunge granché: se negli anni Settanta avessimo potuto vedere lo Scarpantibus di Alto gradimento, il programma di Renzo Arbore, saremmo rimasti delusi. Era bello immaginarlo noi. È un po’ come quando leggi un libro che ami molto e poi vedi il film: quasi sempre rimani deluso. Il protagonista te lo immaginavi diverso, la scena del bacio pure… perché ci hai lavorato con la fantasia. La radio, come la letteratura, chiede di essere fiancheggiata dalla fantasia del fruitore. E l’immagine non aiuta la fantasia: la appiattisce.

Quindi le dirette Facebook che ci sono state durante la quarantena sono state anche un po’… un rovinare la magia della messa in onda?

È stata un’anomalia tale…! Però è anche vero che noi abbiamo avuto il piacere (e l’onore) di andare in onda tutti i giorni, anche quando altri programmi non lo facevano. E questo il pubblico ce l’ha riconosciuto: è nei momenti difficili che ci devi essere. In quella situazione lì magari vederci poteva fare compagnia, dare un senso di comunità in una situazione difficile, in qualche modo. Ma era una situazione molto particolare. La tendenza però è questa qua e dobbiamo prenderne atto.

Passiamo a Fate come se non ci fossi, il suo ultimo libro. Ci tolga una curiosità: esiste davvero il barbiere-filosofo Genesio?

Fate come se non ci fossi di Marco Presta (Foto: AmbraHelo)

Fate come se non ci fossi, di Marco Presta (Credits: Ambra Oberti)

Sì, Genesio esiste davvero! Ma esistono quasi tutti, quei personaggi! Magari sono un po’ rielaborati, ma nei quartieri popolari di Roma una volta li trovavi con una certa facilità. E il barbiere Genesio era un teologo autorevolissimo. Io adesso purtroppo non posso andare più dal barbiere, ma quando ci andavo era sempre divertente. Era una specie di piccolo Concilio vaticano, diciamo; aveva sempre delle riflessioni profonde da sottoporre sulla condizione umana, e poi magari si parlava della partita della Roma. Però c’era spesso una sorta di filosofia d’accatto, spiegata al popolo. Molto divertente e con una sua saggezza.

Forse perché priva di sovrastutture?

E anche di fighettismi da salotto! Lui ragionava mentre tagliava i capelli, e traeva delle conclusioni dalle sue meditazioni. E alcune devo dire che erano condivisibili. Quella che ho messo nel libro mi piaceva, perché dava l’idea di un uomo semplice ma intelligente. Mi piaceva molto sentirlo parlare.

“La televisione è l’ovvio dei popoli”, scrive sempre nel suo ultimo libro. Che la televisione sia stata un po’… imbastardita l’abbiamo già detto, e la media di ciò che va in onda è un po’ quello che è. Le potenzialità del mezzo però sono tante! Come si potrebbe migliorare la televisione?

Ammazzandola! Ammazzando la tv generalista senza pietà (e possibilimente facendola anche un po’ soffrire)! È troppo brutta per essere vera, e propone un’Italia troppo brutta perché sia vera. Questo lo dico per la tv generalista, ma a volte si trovano cose interessanti sui canali tematici satellitari. Una volta un programma di grande successo faceva 15 milioni di telespettatori, mentre oggi li fa solo il Festival di Sanremo. Ora se va bene si fanno 4 milioni. La tv sta cambiando molto, e si sta frantumando parecchio. Certo, ha fatto dei danni nel corso degli anni: ci ha reso più superficiali, ha raccontato un’Italia altrettanto incolta, volgare… E il talento è stato sostituito dall’ambizione: non devi saper fare qualcosa per andare in tv, basta che tu lo voglia fortemente e abbia la dovuta sfrontatezza. E infatti siamo pieni di gente improponibile, che non vorrei nemmeno avere al tavolo affianco in pizzeria! Io voglio avere un Genesio, che fa il barbiere ma dice cose sensate. Non voglio una Tina Cipollari, per dire. L’immondizia televisiva è partita con le tv commerciali, anche se poi spesso si è adeguata anche la Rai. Ha peggiorato noi e i nostri figli, e forse dovremmo ritrovare un po’ di senso morale (da non confondere con il moralismo). Vedo che arrivano programmi agghiaccianti anche dall’estero, a volte… ma penso che andrà a morire da sola, questa immondizia.

Si salva qualcosa?

Ci sono anche cose guardabili – non moltissime, devo dire. Mi sveglio presto la mattina, quindi la sera vado a letto e non ho la tentazione di guardare la tv. Però penso che piano piano le cose cambieranno, e in questo i social credo possano dare una mano. E possono farlo diventando una forma di intrattenimento parallela alla tv, in qualche modo, capace di proporre anche cose nuove. Però quella tv lì, brutta, speriamo di smaltirla. Non so quanto ci vorrà, però onestamente un po’ mi vergogno di avere in casa un elettrodomestico che trasmette roba del genere.

Parliamo ora della tendenza al politically correct a tutti i costi. In Fate come se non ci fossi c’è un diverbio sul concetto di “diversamente abile”. Dal racconto un po’ traspare la sua opinione, cioè che forse la verità sta nel mezzo. È così?

Il politically correct è una falsità, è un modo per fregarci. La comicità non è mai stata politically correct. Ci son tre-quattro sketch di Totò che se li facesse un comico di oggi verrebbe accusato di razzismo, omofobia.. tutte cose che vanno assolutamente combattute, però c’è un atteggiamento di falsità. È una correttezza solo formale, perché poi non corrisponde in genere ai contenuti veri. Si cerca di essere tanto politically correct, ma siamo in un Paese in cui non c’è una legge sull’omofobia. Quindi me ne frega assai che si sia politically correct, se poi questo non porta dei frutti reali nella vita di una società.

Secondo lei come andrebbe vissuto, quindi?

Il politically correct è nato per essere infranto. Guardavo Ricky Gervais (che penso conosciate meglio di me), che è straordinariamente divertente ed è un vecchio stand up comedian, neanche giovanissimo. E dice cose terribili, non politically correct. Si batte contro il politically correct, anzi. Io sono abbastanza d’accordo con lui: è un formalismo. Il rispetto dell’altro, del “diverso”, deve essere nel concreto. Si demonizza soltanto l’aspetto esteriore, e si lasciano passare poi gli atteggiamenti concreti. Questo non mi piace: trovo che sia una cosa fasulla, un’ipocrisia brutta.

Qui su Discorsivo ci occupiamo anche di fumetti, e sappiamo dal suo ultimo libro che anche lei era un lettore. Ne legge ancora?

Sì, ne leggo ancora. Di quelli vecchi, a dire la verità. I fumetti hanno avuto un’importanza enorme per me: erano straordinari, sia quelli Marvel che Dc, ma anche molti italiani. Per esempio Alan Ford di Max Bunker, che era divertentissimo! Stimolavano la fantasia e l’immaginario, come fanno i buoni libri, o come fa la fantascienza. Per questo sono stati così importanti nella mia costruzione, ma penso nella costruzione della fantasia di tanti. I fumetti nuovi mi piacciono un po’ meno, ma probabilmente perché sono un po’ datato io. Sono molto diversi: sia quelli Marvel che quelli Dc sono diventati più sanguinosi, più bui… anni fa erano delle favole, molto più divertenti; adesso sono un po’ più simili a quello che siamo diventati. E forse per questo mi piacciono meno.

Presta su Radio2 durante Il ruggito del coniglio

Marco Presta in diretta social con Il ruggito del coniglio (Credits: Rai)

Parliamo di futuro. Cosa c’è in programma, oltre a Il ruggito del coniglio (che vorremmo andasse avanti all’infinito)?

Siete gentilissimi, ma non sappiamo con esattezza cosa ci riserva il futuro. Gli anni passano, la radio è molto faticosa… di sicuro c’è sempre la collaborazione con Luciana Littizzetto, la scrittura di un libro nuovo, un progetto per Netflix… un po’ di cose ci sono. La verità è che arrivato a questo punto dell’anno sono molto stanco: mi impigrisco e cerco di traccheggiare più che posso. È un po’ come quando torni dalle vacanze, che ti sei lasciato tutti i compiti alla fine: dovrò dare risposte e fare cose in tempi molto più brevi di quelli che avrei potuto avere. Di sicuro scrivere è centrale per me, in questo momento. Insieme alla radio, e sotto un certo punto di vista pure più della radio.

Ma questo progetto di Netflix…?

Al momento con Netflix ci sono solo… dei pour parler, ecco. Non vi dico più di questo perché sarebbe velleitario farlo. Vediamo che succede. Io poi per carattere tendo a sperare che le cose non si facciano, per pigrizia. Ho quasi paura di parlarne perché temo che poi possano accadere! Da un lato sono contento e ci lavoro con entusiasmo, però… sono uno stakanovista pigro! È strano, però è così che mi definirei.

Che idea si è fatto di Discorsivo? Sappiamo che ci ha seguiti un pochino, ultimamente…

Vi vedo, e mi sembra che ci sia una pericolosa vitalità in voi! Specie rispetto ai tempi che corriamo (e in senso positivo)! Per cui vi dico “Continuate!”, come fanno gli anziani con i giovani, e ve lo dico con convinzione. Penso che dobbiate farvi conoscere un po’ di più: fate cose inconsuete e interessanti, e vi auguro di crescere, di trovare seguito e di proporvi in maniera tale da far vedere quello che sapete fare. Speriamo di qui a qualche mese di vedere un boom di Discorsivo. Ve lo auguro veramente!

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