Carcerati, lo scrittore Giuseppe Fabro: “Senza dialogo non c’è cura”


Giuseppe Fabro, classe 1949, si sta facendo largo tra i grandi autori del noir con Il sangue dei padri.

Ha accettato di incontrarmi dopo la presentazione del libro a Genova. L’ho raggiunto nella capitale del tartufo, Alba, in provincia di Cuneo, città di domicilio ma non di nascita. Le presentazioni, un caffè, e subito ci siamo lasciati la città alle spalle, verso le verdi colline piemontesi.

Intervistare Giuseppe è stato un po’ come chiacchierare con un amico che non vedevo da tempo. Con voce tranquilla e pacata, l’autore mi ha guidato nelle pieghe oscure del suo libro e all’interno del suo percorso di vita, nel quale ha aiutato chi non ha avuto la forza di combattere da solo.

Giuseppe Fabro

Giuseppe Fabro (Credits: Andrea Ion Scotta)

Giuseppe Fabro si racconta a Discorsivo

La comunità in cui ci ospiti si chiama Il ginepro, una delle tre da te create. Quando l’hai costruita?

Sono entrato qui nel 1990, la cascina era diroccata. L’abbiamo ristrutturata in tre anni. Nel 1994 abbiamo aperto un‘altra comunità qui ad Alba, specializzata nel recupero dei tossicodipendenti direttamente dalla strada. Dopo questa primissima accoglienza, seguita da un periodo di tre mesi di disintossicazione, offriamo un’altra possibilità. Ed è proprio qui dove siamo adesso che il percorso potrebbe continuare. Nessuno è obbligato a fare nulla: se uno non vuole può liberamente tornare sulla strada. Quando iniziano, devono accettare e rispettare il nostro regolamento e cominciare un percorso terapeutico. Stipuliamo un contratto con l’utente dove quest’ultimo si impegna a iniziare un percorso con uno psicoterapeuta, uno psicologo e un educatore.

Lavoriamo insieme, Il Ginepro, comunità di Giuseppe Fabro

“Lavoriamo insieme”, murales della comunità Il ginepro (Credits: Andrea Ion Scotta)

Si può considerare dunque un impegno alla rinascita?

Esatto. C’è da dire però che con il taglio dei fondi che hanno subito le Asl c’è stata una forte penalizzazione per noi. Prima del taglio, il programma durava due anni per ogni utente e comprendeva disintossicazione al centro prima accoglienza, percorso terapeutico qui in comunità e infine l’inserimento all’interno della Cooperativa Solaris, presieduta da mia moglie. Qui inizia il reinserimento sociale attraverso il lavoro. Sui 900 ragazzi circa che sono passati da noi, almeno 300 li abbiamo presi direttamente dal carcere.

Parlando del tuo libro, quali sono le tue fonti?

Alcune arrivano direttamente dalle lettere che mi mandano dal carcere, altre dai colloqui che faccio con i ragazzi. Prendiamo in esame quest’ultimo caso: dopo due o tre mesi di colloqui con una persona, stabilisco una relazione e divento qualcosa di più di un mero confessore. Quando un utente mi parla di una rapina che ha compiuto, è giustamente sicurissimo che il racconto rimanga tra di noi. Di conseguenza è anche più libero di scendere nei particolari . Non chiedo mai nomi, date e luogo: non mi interessa. Vorrei conoscere il suo vissuto, sapere cos’è successo prima della rapina, il motivo che lo ha spinto a farla e ciò che ha vissuto durante e dopo. Questi colloqui mi entrano dentro. Quando devo parlare o scrivere di un fatto di sangue ormai è come se l’avessi vissuto con i miei occhi.

Basta un libro a contenere tutti i racconti che hai sentito? 

C’è un libro già pronto, devo solo equilibrare la struttura. È un libro composto da storie terribili. I miei libri sono pieni vita e di conseguenza anche di sofferenza.

Come si intitola?

Dio e gli altri scarti, ma il titolo è provvisorio. Questo è un noir, staccato da Il sangue dei padri. È la storia di un rimorso che perpetua nel tempo, arrivando all‘inconsapevole protagonista. Un atroce delitto viene commesso due generazioni prima della sua: il nonno commise un omicidio e toccherà al nipote a scontare tutte le sue colpe senza saperlo. Il percorso del protagonista e popolato da persone che vivono ai margini: senzatetto, tossici. Un viaggio tra il manicomio criminale, il traffico di droga a Marassi e combattimenti tra i senzatetto. Ma c’è tempo anche per un matrimonio. L’amore convive con l’odio.

Oltre alla diffusione del racconto, quali sono i tuoi obiettivi?

Le mie storie devono servire. Un obiettivo molto importante de Il sangue dei padri è anche far capire quanto sia inutile e mal organizzato il sistema carcerario in Italia. Nel nostro Paese non si recupera nessuno, o veramente pochi. Dopo l’arresto si viene sbattuti in galera insieme ad altre due o tre persone, per 18-20 ore al giorno in celle larghe tre metri per quattro. E rosicano. Tra compagni di cella non si hanno altri argomenti se non i crimini commessi. Quando le istituzioni lo permettono, li recuperiamo noi, qui. Ti faccio un esempio. Un anno e mezzo fa ho ospitato un rapinatore con cui ho stabilito un relazione fortissima. La sua vita criminale ha avuto una brusca interruzione con la nascita del figlio. Con forte coerenza e volontà, quest’uomo ha intrapreso un bellissimo percorso di redenzione di un anno. Ma ha voluto interromperlo, senza rispettare la mia raccomandazione di proseguire almeno per altri dodici mesi. Aveva troppi anni di devianza dentro di lui. “Speriamo non mi arrestino” mi disse. Lo hanno arrestato dopo un mese.

E poi che è successo?

È in carcere da un anno. È stato costretto a rivivere la detenzione, alzare le sue difese e tutti quei processi mentali che qui stava perdendo. Oltre all’aiuto fornito dalle comunità terapeutiche, queste persone non hanno modo di redimersi. Se si lasciano questi ragazzi a rivivere il loro passato di violenza e di sopraffazione per 20 ore in una cella, con scarso supporto educativo e psicologico, non si può pretendere che si redimano. Il risultato è farli arrabbiare di più. Alimentano la propria rabbia l’uno con l’altro, mentre progettano un nuovo colpo cercando il modo di farla franca, senza finire in carcere. La giustizia popola le celle con persone di culture totalmente diverse, che non si capiscono, e come si dice qui da me “chi non capisce aggredisce”. E senza dialogo non c’è cura.

Fine pena mai. Accanto all'insegna, il libro di Giuseppe Fabro, Il sangue dei padri

(Credits: Andrea Ion Scotta)

Sentiamo spesso “Fine pena mai”. Cosa vuol dire?

Quando un ergastolano trova il coraggio di guardarsi dentro è inevitabile che si faccia questa domanda: “quando finirà la mia pena?”

La criminalità descritta nel libro non si discosta da quella ospitata dai vicoli di Genova. Com’era la delinquenza genovese che hai vissuto?

La banda descritta ne Il sangue dei padri vive nel secondo dopoguerra ed è solo un preludio di quello che succederà anni dopo a Genova. Negli anni Settanta verrà costituita una banda che colpirà con molta più violenza, facendo molti più danni di quella che ho descritto io. Ma ora non esiste più quel tipo di criminalità. Non c’è più quel mistero, quel fascino che i vicoli cantati da De Andrè avevano allora. A ogni passo c’era un contrabbandiere pronto a venderti droga o pornografia o ancora materiale rubato di ogni genere.

Cosa rappresenta per te Genova?

Amo moltissimo Genova. Ci ho vissuto dal 1970 al 1984. Ho lavorato in una trattoria, in cui ho imparato la cucina genovese. Sul mio profilo Facebook potrete vedere il mio pesto cucinato rigorosamente al mortaio! Genova mi è rimasta nel cuore. Ho vissuto anni bellissimi, molto forti, amicizie importanti. Grazie a Genova ho capito che potevo aiutare davvero le persone che si sono perse.

Oramai sei in pensione, ma il tuo cuore non sembra ancora pronto a lasciare tutto. È così?

Questa comunità è come un figlio per me e non riesco ad abbandonare tutto. Faccio volontariato due o tre volte la settimana, così ho l’opportunità di conoscere i ragazzi, di parlargli. Ma non è più come una volta: quando ero in servizio chiamavo gli utenti tre volte a settimana, facendo almeno quattro colloqui al giorno. I colloqui ora sono diventati tre la settimana. Da quando faccio questo mestiere ho avuto una fortuna pazzesca: ho trovato una moglie straordinaria e ho cresciuto un figlio di cui sono orgogliosissimo. Sono state soprattutto le persone che hanno incrociato il mio cammino a renderlo meraviglioso. Tra questi, alcuni utenti recuperati dalla tossicodipendenza, che sono diventati operatori di valore.

Genova quindi è stato l’inizio con l’esperienza nel sociale. Ma quando è iniziato tutto?

Era un momento particolare della mia vita. Un purgatorio, se vogliamo definirlo così. Ma è in questo momento così di limbo che ho incontrato un amico, proprietario di una missione, cioè una comunità di base cristiana a Genova, nei vicoli. Mi ha chiesto se volessi trasferirmi a Cuneo per cambiare aria. Andai. Per ripagare di questo loro servizio presi in gestione una piccola comunità per tossicodipendenti e senzatetto. Per la prima volta nella mia vita cominciai a capire che riuscivo a supportare queste persone. Nel frattempo ho conosciuto colei che sarebbe poi diventata mia moglie, e momento dopo momento la voglia di tornare a Genova cresceva, come la voglia di tornare a lavorare. Tant’è che dopo tre anni il prete operaio di Alba, don Valentino, mi propose di trasformare un suo rudere abbandonato in una comunità per tossicodipendenti. Che non è altro che quella in cui siamo noi adesso.

Percorso di crescita, Il ginepro, comunità di Giuseppe Fabro

Percorso di crescita, Il ginepro, la comunità di Giuseppe Fabro (Credits: Andrea Ion Scotta)

E hai accettato subito?

All’inizio ero titubante, in conflitto con me stesso, ma gli ho promesso di seguire i suoi consigli. Nel frattempo mia moglie è rimasta incinta e abbiamo deciso di intraprendere questa sfida che ci pareva impossibile: la struttura era in condizioni disastrose.  I ragazzi che avevo a Cuneo sono venuti qui e pian piano l’abbiamo ristrutturata fino diventare un ente ausiliario della Regione. Nel frattempo ho preparato un piano terapeutico approvato dalla Regione stessa, che usiamo ancora. Nelle tre comunità ho 60 persone a busta paga che collaborano efficacemente.

Il primo romanzo pubblicato con una famosa casa editrice, Rizzoli. Com’è nata la collaborazione?

È stata un’avventura incredibile. Mia moglie ha scritto un libro, sei o sette anni fa, intitolato Il tempo tagliato. La accompagnai al Salone del libro di Torino perché doveva presentarlo. Mentre aspettavamo l’inizio della presentazione abbiamo incontrato il suo agente, accompagnato da Michele Vaccari di Rizzoli. Abbiamo conversato piacevolmente, ma il discorso si fece più interessante quando mi ha detto che non ci sono molti libri che romanzano Genova. Gli ho confessato che stavo cercando di scrivere sotto forma di storia le mie esperienze di vita, e di ricamarle sul suolo genovese. Alla fine della conversazione accettai di inviargli il mio manoscritto, una volta finito. Lo stimolo è stato davvero importante: da allora ogni sera ho scritto un capitolo con mia moglie che (essendo la mia lettrice ideale) lo leggeva e mi aiutava plasmare quello che ora è diventaro Il sangue dei padri. Quando ho terminato la stesura finale, ho spedito il manoscritto ad altre 11 case editrici oltre che a Rizzoli. È stata proprio quest’ultima ad accettarlo, e dopo una settimana ho firmato il contratto. Ho aspettato due anni, ma il mio romanzo è stato pubblicato.

Alla fine ce l’hai fatta.

Nella vita bisogna avere un sogno. Magari fino ai trent’anni un individuo non si è ancora orientato, come è vero che ci sono persone che già alle medie sapevano quello che avrebbero fatto da grandi. Io non lo sapevo. Il nostro futuro è nascosto tra le esperienze di vite e le occasioni. Se siamo attenti a noi stessi e sappiamo guardarci dentro, troveremo la nostra strada. L’importante è prestare attenzione: non si sa mai a quale età potrà succedere.

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