La stiva e l’abisso, di Michele Mari


La stiva e il mistero dell’Abisso

Nella stiva di un galeone spagnolo aleggia un mistero. Il galeone è immoto da giorni sopra le acque dell’Abisso a causa di una misteriosa bonaccia. Il suo capitano è costretto a letto dalla cancrena. Anche lui è immobile, e le uniche informazioni che riceve dall’esterno sono quelle del Secondo, Menzio, che si reca nella cabina del capitano almeno una volta al giorno. Menzio però non è un buon narratore: non riesce a trasmettere le emozioni, confonde i fatti salienti con quelli secondari, non si pone domande quindi non cerca risposte.

Ma sta davvero accadendo qualcosa nella stiva?

Il capitano cerca di riempire i vuoti narrativi del Secondo con ciò che percepisce Non sente più i mugugni degli uomini: sono immobili da giorni, eppure sempre meno marinai si lamentano. Talvolta sente dei canti in lingue sconosciute; talvolta del tonfi che non capisce se siano cadaveri gettati in mare o altro: la penuria di cibo inizia a decimare l’equipaggio? E sempre nell’aria quel profumo di pesce, soprattutto la notte, tra le due e le quattro del mattino. Ma non di pesce cucinato, ammuffito, stantio, no. Di pesce fresco, vivo. Che sta succedendo veramente nella stiva?

Per fortuna non c’è solo il Secondo come narratore del capitano.

Altri personaggi gravitano intorno a lui, con maggiore o minore frequenza: il più assiduo è Ernestìn, il giovane mozzo. Sarà proprio lui che svelerà parte del mistero: narra di pesci incredibili provenienti dall’Abisso che, tutte le notti, entrano nella stiva tramite gli oblò semi aperti e giacciono nei lettucci con i marinai. Ogni marinaio ne ha uno, ma nessuno ne può parlare se non con altri che abbiano provato la medesima esperienza. Ernestin stesso era stato scelto da uno di loro ma è stato subito rifiutato perché troppo giovane.

Chi sono questi esseri mostruosi provenienti dall’Abisso? Perché saltano nella stiva del galeone?

Mettendo insieme i pezzi della storia, un po’ tratti da Menzio, un po’ da altri, il capitano apprende che ogni pesce ha un nome, un soprannome in realtà, che condivide col proprio amato prima di iniziare a fare.. a fare che cosa, in effetti? I pesci raccontano storie. Storie bellissime, coinvolgenti, incredibili. La narrazione avviene all’incirca così: il pesce salta nel letto dell’amato, i due si accarezzano con desiderio e all’improvviso, senza parlare, il pesce racconta una storia con una emozionalità così intensa che il marinaio non vede l’ora che ritorni la notte per averne ancora, e ancora e ancora.

Che storie sono?

Si racconta che i pesci dell’Abisso mangino gli occhi degli annegati: tutto ciò che questi ultimi hanno veduto in vita viene così rivissuto dai pesci, i quali narrano ciò di cui hanno fatto esperienza ai marinai. Se i pesci provino smania di raccontare, se le storie diventino reali proprio perché raccontate o se loro si sentano vivi solo narrando, questo i marinai non lo sanno – e se lo chiedono spesso. Tuttavia sanno di sentirsi appagati, e sono dimentichi delle proprie faccende.

Tutto questo mentre il capitano, sempre immobile nel letto, sente i suoni provenienti dalla stiva e prova un irresistibile richiamo verso l’Abisso. 

 

Libro interessante da molti punti di vista, vorrei soffermarmi su due elementi.

Il primo riguarda il linguaggio. La stiva e l’Abisso presenta un linguaggio studiato: vi è un cambio di registro repentino a seconda del personaggio o del contesto e ciò non solo per differenziare lo status dei personaggi ma anche per evidenziare l’accettazione o il rifiuto del personaggio del mistero dell’Abisso. Molti marinai cambiano il proprio modo di esprimersi dopo l’incontro con il pesce e si rendono conto che il cambiamento li ha pervasi. Proprio come quando ci si accorge all’improvviso di riuscire a raggiungere la maniglia della porta senza eccessiva fatica. In alcuni tale cambiamento è unicamente formale (il registro del linguaggio o la lingua), in altri è sostanziale (cambiamento del nome, della professionalità, della vita). Anche il linguaggio di Menzio evolve, anche se in modo parodistico. Mentre i marinai scopriranno la bellezza della lingua, Menzio la sfiderà, con neologismi, proposizioni al limite dell’accettabilità, giochi di parole.

Il secondo elemento da sottolineare è lo smisurato amore per la narrazione. Ogni marinaio ha una storia che conserva gelosamente e che custodirà fino alla tomba. Chissà se le storie esistono di per sé o se esistono per essere raccontate. Sta di fatto che un racconto per esistere presuppone due soggetti, colui che racconta e colui che ascolta: chi non racconta, fallisce, e chi non ha ricevuto una storia, si sente infelice perché escluso. Infine, l’atto del raccontare arricchisce chi racconta o chi ascolta? Neanche a questa domanda il libro fornisce risposta. Ma forse non è proprio da questo continuo porsi delle domande che nasce una narrazione?

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