Damnatio Memoriae


Kevin Spacey è un attore americano. E’ nato a South Orange (New Jersey) il 26 luglio 1959.

Quando l’altro giorno, scorrendo quasi a caso sulla galleria di Youtube, mi è apparso un lampo dell’immagine di Kevin Spacey nel suo abito color tabacco, intento a recitare la poesia “Il Pugile” di Gabriele Tinti all’interno di un meraviglioso museo romano nel quale è conservata l’omonima statua bronzea attribuita a Lisippo, confesso di aver sorriso per la gioia.

Erano trascorsi due anni dalla sua ultima apparizione in pubblico.

Dopo le accuse di adescamento di minori, molestie e violenze psicologiche a danno di giovani ragazzi, l’attore di South Orange (New Jersey) aveva preferito sparire dalle scene.

L’ultimo ricordo risaliva a quel video, divenuto popolarissimo, tutt’oggi ancora controverso e pubblicato sulla pagina Youtube dell’attore, nel quale, difendendosi dalle accuse di stupro e di molestie – nella sua consona veste ambigua – Spacey sfoderava il celebre anello del protagonista di “House of cards”, Frank Underwood, e se lo rigirava nell’anulare, accompagnato da quel suo tipico sguardo pervicace piantato nella telecamera.

Molti i rumors e le teorie che si sono avvicendate nel corso di questi ultimi due anni a riguardo di quel gesto: alcune persone hanno ipotizzato un rientro in scena dell’attore nella veste del personaggio che lo ha reso conosciuto in ogni angolo del pianeta; altri complottisti, invece, hanno ritenuto che il gesto dell’anello sottintendesse una subitanea vendetta dello Spacey nei confronti della casta “hollywoodiana” dei suoi accusatori che, secondo tale corrente, si sarebbe macchiata di crimini non meno odiosi di quelli di cui l’attore era accusato.

Come a dire: avete fatto cadere una testa, la mia, ora io farò cadere la vostra, ipocriti!

Nulla di quanto dedotto o ipotizzato dai molti si è ovviamente verificato.

Kevin Spacey è tornato nella veste di attore (teatrale e non cinematografico) leggendo un testo di un poeta italiano di fronte a un pubblico di intimi, in una città molto lontana da Los Angeles.

Nessun ritorno a casa come Frank Underwood anche nonostante la recente ritrattazione da parte di uno dei “giovani” (all’epoca dei fatti) accusatori. Nessuna vendetta nei confronti della “casta” degli orchi hollywoodiani.

A ben vedere, Spacey ha compiuto un’operazione ben più congegnata e artistica: una sorta di confessione, espressa nella lingua che più gli si addice, quella della recitazione.

Solo due anni fa la carriera cinematografica e teatrale dell’attore era parsa al capolinea. Le produzioni e i grandi registi americani gli avevano voltato le spalle, sebbene molti, specie i cosiddetti complottisti, rigettassero come la peste bubbonica l’atteggiamento puritano e asseritamente ipocrita del cinema americano, autore, secondo questi, di un’odiosa operazione di “damnatio memoriae” ai  danni dell’attore.

Kevin Spacey interpreta Kaiser Soze, protagonista de “I soliti sospetti” di Bryan Singer, USA, 1995.

Non si può negare, però, che l’impianto accusatorio a suo carico fosse piuttosto consistente e, soprattutto, difficile da smontare. Anche se, certo, le accuse di molestie sembrano sporcate da un fatto inequivocabile: il trascorrere del tempo.

Nel frattempo, però, erano già stati sguinzagliati i cani e Spacey pronto ad essere messo sulla graticola.

Duro biasimare chi, come i produttori americani, avrebbe dovuto, con il crescere delle accuse, ragionare con la testa di un genitore che paga l’abbonamento di Netflix o il biglietto del cinema al figlio, dove si esalta un divo che si sarebbe macchiato di tali fatti.

Tutto si può rappresentare, basta che chi rappresenta tenga ben presente di non diventare il protagonista del rappresentato. Il cinema è pur sempre finzione e, dunque, che la finzione rimanga tale.

Forse solo la ritrattazione da parte delle presunte persone offese dal reato avrebbe dato chance a Spacey di riemergere dall’oscurità piatta del disprezzo dell’opinione pubblica.

Come osservavo, forse ne è bastata una soltanto per infondere all’attore la voglia di riapparire e di farlo prendendosi tempo per quella che è apparsa una piccola vendetta contro i suoi accusatori.

Va detto che la vittima che ha ritirato le accuse, all’epoca dei fatti, era un barista e, dunque, non un soggetto direttamente coinvolto nel mondo hollywoodiano. In buona sostanza, visto che la credibilità globale nei confronti del mondo hollywoodiano è poca, molti sono rimasti colpiti dal fatto che uno dei pochi accusatori esterni avesse fatto marcia indietro.

Quanto al ritorno sulle scene dell’attore non è mio desiderio esprimervi se, a mio giudizio, Spacey abbia fatto bene o male.

Tuttavia, posso provare a ricostruire un’interpretazione della lettura del 2 agosto scorso.

Mi soffermo su un passo piuttosto significativo:

Come dici? Forse hai ragione. Più si è feriti e più si è grandi. E più si è vuoti. M’hanno usato per i loro divertimenti, nutrito di roba scadente. La vita se n’è andata in un momento. È sempre stato così: ho lottato, cercato un orlo, un’alba dove poter ricominciare. Ho passato un’infinità di notti senza dormire. Sono rimasto ore e ore a sudare per distruggere e cadere. Ho fatto di tutto per occupare ogni vuoto. Il sangue brillava nelle mie vene e io, in fondo, ho sempre voluto precipitare”.

Ebbene, se nella prima parte appare evidente il richiamo sofferto alla vicenda personale e alle innumerevoli accuse ricevute, a leggere più nel dettaglio l’ultimo verso:”Io, in fondo, ho sempre voluto precipitare“, si rimane un po’ stupiti.

Sembra, infatti, che l’attore stia compiendo una vera e propria confessione (nel gergo giuridico la confessione altro non è che il racconto di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte).

Ma che cos’avrebbe confessato?

Come è noto, dopo le accuse, l’attore ha rivelato al mondo la propria sessualità. Kevin Spacey è gay. E dopo tale fatto, è immediatamente apparso il nutrito coro di scandalizzati, di cui buona parte costituito dalla Comunità hollywoodiana LGBT stessa (Anthony Rapp, il primo grande accusatore, è dichiaratamente gay), che ha puntato il dito su Spacey accusandolo di essere uno schifoso pederasta – oltre al fatto di dichiararsi gay a quasi 60 anni dopo aver operato come “lupo” per i 40 precedenti – e di compromettere il decennale lavoro svolto sull’opinione pubblica da parte di tale Comunità che, come è chiaro, ha sempre tenuto distinto il concetto di omosessualità da quello di pederastia e/o pedofilia.

Su queste considerazioni, invece, credo sia giusto fornire un punto di vista critico.

Innanzitutto, appoggio in questo caso chi ha difeso Spacey.

L’attore non era tenuto a rivelare al mondo la propria sessualità, a maggior ragione dopo le accuse di molestia tutte da verificare, e rifiuto di allinearmi al pubblico e a quella parte di Comunità LGBT d’oltreoceano la quale, sempre con maggior frequenza, mostra un lato di sé puritano e illiberale (ed è veramente un paradosso inaccettabile!).

Quando si usano le parole, ce lo hanno insegnato gli storici dell’antidiscriminazione, si deve conoscere la provenienza linguistica e l’evoluzione del vocabolo oltre a collocarla nel contesto storico attuale.

La pederastia è un costume dell’antica Grecia, non applicabile ai giorni d’oggi e troppe volte confusa oggi con il moderno concetto di pedofilia (che sottintende “violenza nei confronti dei minori”).

Quello che si contesta a Spacey è un’attrazione, sfociata poi in ripetute aggressioni sessuali nei loro confronti, per giovani adepti del cinema americano – in buona sostanza, lo si paragona a Weinstein, con la sottile differenza che, insieme all’etichetta di stupratore, gli viene affibbiata quella di pedofilo!

Chissà poi se Spacey è davvero un omosessuale adulto molto attratto dalle persone più giovani? Magari sì, e allora?

I vari Pasolini, Visconti, Marlon Brando (per fare solo tre nomi illustri) non lo erano forse?

Tutti questi grandiosi interpreti dell’arte cinematografica erano ben consci della delicatezza e della pericolosità di una tale attrazione e così, davano voce a questa inquietudine attraverso la loro arte, in parte percependone e denunciandone lo stigma, oltreché il personale senso di inadeguatezza.

Ebbene, a ben vedere credo che Kevin Spacey, con la lettura di quel testo, si sia allineato alla voce di speranza di quegli artisti che hanno saputo così lodevolmente rappresentare la paura e il senso d’inadeguatezza provocato da un’attrazione di quel tipo (che non è solo omosessuale e, dunque, inevitabilmente stigmatizzata, ma è anche, per così dire, sofferta perché giudicata moralmente inappropriata e, dunque, vietata).

Questa è solo un’interpretazione, come è ovvio. L’accenno al voler sprofondare potrebbe ben riguardare tutt’altra questione, oppure intendere la sofferenza del lavoro dell’attore, paragonandolo a quello del pugile.

Ma certo, se pensate alla carriera di Kevin Spacey sono stati molteplici i ruoli in cui l’attore stesso ha disseminato indizi, ora più comprensibili, di un’inquietudine sepolta dentro di sé.

Il mestiere dell’attore è naturalmente l’incarnazione dell’ambiguità dei sentimenti e la testimonianza viva dei cambiamenti del costume sociale.

Ma prendiamo i tre ruoli chiave della carriera dell’attore americano:

  1. Kaiser Soze: il celebre e inquietante genio del crimine della banda de “I soliti sospetti” era un uomo evidentemente molto diverso da ciò che appariva (un innocente, balbuziente e sciocco storpio);
  2. John Doe: l’assassino fondamentalista religioso di  “Seven“;
  3. Lester Burnham: il padre annoiato e deluso, pronto al riscatto in un mondo borghese ipocrita e fasullo di “American Beauty“.

Con una curiosa sintesi di questi tre ruoli, ciascuno di noi potrà fantasticare su una buona chiave di lettura di questa storia.

Perché personalmente ho sorriso non appena ho avuto modo di ascoltare la recente esibizione romana?

Ho sorriso perché, per un malriposto senso di giustizia nei confronti dei soggetti contro cui si scaglia l’opinione pubblica, venendo a conoscere che uno dei principali accusatori aveva ritrattato, ho sperato che tutto l’impianto accusatorio crollasse come un castello di carta concedendo a Spacey la sua vendetta.

Non è da poco che credo che in vicende come queste si sia totalmente smarrito il senso di equilibrio e di ricerca della verità storica. L’importante è vociare, rincorrere la notizia farsi esplodere le vene del collo urlando la propria indignazione momentanea, dimenticare ogni senso di umanità e di comprensione per un soggetto che, dal nulla, si ritrova a poter perdere tutto. E, poi, dopo poco, dimenticare il desiderio di conoscenza della verità e cambiare canale.

Basti pensare che,  in mancanza di una verità giudiziaria, comunque, è bastato 1 mese per sputtanare una carriera straordinaria e una vita di un uomo sessantenne e, dopo la sua apparizione, è stato sufficiente 1 giorno nel nostro Paese perché i giornali nostrani lo riabilitassero. E questo, più che far ridere, mi inquieta.

In secondo luogo, ho riso perché sono un grande appassionato della recitazione di Spacey e la ritengo un pilastro del cinema degli anni 90 e penso all’attore americano come a un interprete principe dei cambiamenti della società contemporanea. Perciò, il suo coup de theatre mi ha sorpreso e fatto sorridere.

In terzo luogo, se per caso Spacey fosse davvero stato sputtanato da alcuni giovani con cui ha fatto sesso io certo mi guarderei bene da parlare con leggerezza delle sue azioni e, a meno che non si tratti di azioni violente da condannare, comprenderei la sofferenza di rivelarlo e non lo giudicherei mai.

Perciò, la leggerezza e la disinvolutura con cui si è presentato davanti a quel pubblico (seppur piccolo) o sono la prova di un uomo totalmente convinto della sua innocenza, oppure quelle di un uomo in parte cosciente delle sue azioni ma comunque libero e desideroso di esprimere il loro significato, attraverso ciò che gli riesce meglio e, cioè, recitare.

In quarto e ultimo luogo, benché Kevin Spacey abbia dovuto mentire o nascondersi per anni, sono parzialmente contento che il suo personale gusto sia stato messo in piazza (magari, certo, non con quelle modalità bacchettone e illiberali). Lo dico perché, anche se è una verità parziale, almeno questa è una verità che, comunque, ripeto, Spacey non era in dovere di rivelare.

Saranno state l’età, oppure le sue risorse economiche, oppure, ancora, lo sputtanamento in corso che gliel’hanno consentito, in ogni caso è comunque sempre un bene per un uomo poter fronteggiare una verità simile.

Ma ripeto, questa è solo un verità parziale della vicenda.

Ad ogni modo, per chiunque arriva, come per Spacey, il momento imbarazzante e sofferto nella vita a cui è impossibile sottrarsi, e in quel momento bisogna avere le armi e la corazza per saperlo affrontare con coraggio (a qualsiasi età – dunque, millennials , diffidate comunque da chi vi impone di fare qualcosa perché è giusto, se vi sentite ancora impreparati alle sue conseguenze. Voi preparatevi, intanto. Prima o poi vi capiterà comunque di essere sputtanati :). Niente di più semplice del famoso detto: la verità salterà fuori.

Quanto agli aguzzini della morale, i cd. moralisti, gli autori delle cd. damnatio memoriae, ritengo sempre utile rispolverare questa celebre citazione: “È una gran cosa quando realizzi di avere ancora l’abilità di sorprenderti. Ti fa chiedere cos’altro puoi fare che ti sei dimenticato“.

Piccolo approfondimento sull’espressione Damnatio Memoriae: nel gergo comune s’intende un’operazione orchestrata dall’opinione pubblica, anche mediante gli organi di comunicazione di massa, di dannazione del ricordo legato a un personaggio storico, alterando e/o rimuovendo, in taluni casi, opere, talenti, biografia dello stesso, così da screditarlo ai posteri.

L’espressione nasce nell’antica Roma e consiste in una sanzione imposta dal Senato, il rappresentante del Potere dell’Urbe repubblicana, nei confronti di un soggetto, il cui nome veniva rimosso dalle iscrizioni, non poteva essere tramandato in famiglia e le raffigurazioni della sua immagine venivano cancellate.

Nell’età imperiale pare che la sanzione fosse divenuta ben peggiore (si abbattevano le statue o si sfregiavano i visi sulle monete coniate – insomma si legnava duro nei confronti del “poveretto”).

In entrambi i casi la damnatio memoriae, se operata in vita, comportava la morte civile del soggetto.

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