Il Traditore (2019) di M. Bellocchio – La colpevole amnesia collettiva chiamata “Cosa Nostra”


Pierfrancesco Favino interpreta magistralmente Tommaso Buscetta, detto Don Masino, primo storico collaboratore di giustizia affiliato a Cosa Nostra. Le sue testimonianze furono fondamentali e d’impulso al maxiprocesso di Palermo tenutosi dal 1986 e 1992, in cui i magistrati del pool antimafia sottoposero a processo oltre 450 imputati accusati di far parte dell’Associazione a delinquere nota come Cosa Nostra.

Nella figura de “il Traditore”, il Boss dei due mondi, Tommaso Buscetta, Bellocchio non riassume soltanto lo storico passaggio di potere dal Clan dei Palermitani a quello dei Corleonesi ma anche l’evoluzione, all’interno di Cosa Nostra stessa, dal modello di una Mafia antica a quello di una moderna.

Una mafia territoriale, nata nel diciannovesimo secolo per colmare un vuoto di potere venutosi a creare con il passaggio dal Regno delle Due Sicilie a quello dell’Unità d’Italia, fatta di regole e codici arcaici, viene sostituita da una moderna, cosmopolita e trafficante.

L’escalation di violenze nella lotta di clan è l’occasione per raccontare la storia di un’Italia che sanguinava senza accorgersene e così rivivere l’importanza del Maxi Processo di Palermo che riuscì nell’impresa di far conoscere all’Italia quello che, da sempre, è il cancro che le impedisce di diventare il Paese più importante d’Europa.

Il Traditore è, in effetti, la storia di un personaggio lontanissimo dallo stereotipo dell’antico mafioso siciliano. Tommaso Buscetta è un emigrante facoltoso, protetto e colluso, influenzato, nelle tendenze, dall’enorme boom latifondistico-liberal-capitalistico moderno che nel Sud America stava trovando il proprio campo fertile.

Buscetta è un uomo contaminato e, perciò, distante dalla “purezza” del Sangue Mafioso siciliano.

Buscetta, alias Pierfrancesco Favino, all’esame dei magistrati della Corte d’Assise di Palermo.

In Italia ha due figli lasciati a casa per un divorzio dalla prima moglie (cosa impensabile per un mafioso siciliano), tanti ricordi d’infanzia e una vita passata da “soldato” di Cosa Nostra del Vecchio Mondo che lui sembrerebbe voler dimenticare.

La protezione e i contatti con Cosa Nostra gli servono per tirare avanti nel proprio mondo di ricchezza ostentata da cui è tanto affascinato, quanto succube.

Già dai primi fotogrammi, Bellocchio (pensate alla scena del matrimonio e della sfuriata del Buscetta con il figlio siciliano eroinomane) riesce a mostrare allo spettatore le profonde lacerazioni e la natura contraddittoria del protagonista.

Chi è davvero Tommaso Buscetta? E’ un isolano, un affiliato, ancorato alla più tradizionale cultura mafiosa, oppure è un criminale moderno , attratto magneticamente dalle ricchezze e dalla libertà del Continente Americano?

Nel cogliere la contraddizione fra l’appartenenza così penetrante alla cultura d’infanzia e l’evoluzione della cultura moderna, Bellocchio ci fornisce una chiave di lettura dell’Italia appena uscita dall'”orgia” del benessere degli anni 60, trasformata dal progresso e, ormai, lontana dalle vecchie tradizioni.

In questo contesto di frammentazioni trova spazio, però, una Sicilia arcaica, perfettamente rappresentata nelle sequenze crude e grottesche di questo film, che ci fa comprendere l’enorme distanza che c’è fra noi millennials provenienti dalle città del Nord Italia (tanto per usare un termine caro a Discorsivo) e una regione al confine dal tratto storico, per certi versi, ancora medievale.

Il protagonista del suo nuovo film, invece, è la perfetta sintesi di un modello di nuova italianità (ricordandoci, sempre, però, di non confonderla con chi, diversamente da Buscetta, non ha mai operato nell’ambiente malavitoso), camaleontica ed ermetica.

Fu proprio la perspicacia del Giudice Falcone, quando ordinò l’estradizione di Buscetta dal Brasile, a trarre da un uomo tanto ermetico quanto ormai contaminato dal Nuovo Mondo una testimonianza chiave per l’avvio del più importante processo della storia giudiziaria italiana.

Una scena perfettamente coinvolgente quella dell’Estradizione  che mostra, peraltro, la netta differenza che ancora v’è tra l’America e l’Europa proprio facendo leva sul trattamento riconosciuto al soggetto prigioniero (nella differenza di trattamento che utilizzano le Forze dell’Ordine Brasiliane e quelle Italiane, Bellocchio sembra voler far comprendere che qualcosa nel Sistema del Nostro Paese è comunque migliore che in altri).

Le sequenze successive sono frammenti di storia che ricordavo appena e che mi hanno colpito profondamente.

I duelli rusticani delle aule giudiziarie, moderati a malapena dal Presidente del Collegio giudicante (che rappresenta, peraltro, il mondo di cui faccio parte) sono il riflesso di un profondo distacco fra la giustizia austera e utopica che si pratica nelle aule di Giustizia e una quotidianità tanto sfaccettata quanto anarchica.

Estremamente interessante la caratterizzazione somatica dei protagonisti (da Pippo Calò a Totò Riina, da Andreotti a Falcone stesso) voluta dal Regista. Farete caso che alcuni celebri personaggi storici sono rappresentati in forma caricaturale/teatrale (Andreotti, soprattutto), in modo da non confondersi con gli altri ma senza apparire mai troppo fedeli al loro reale aspetto fisico. Un intento voluto, a mio avviso, per raccontare un messaggio, una morale fondamentale: di tali momenti, che hanno caratterizzato in maniera così drammatica la storia del Nostro Paese, si sta perdendo la memoria, tanto che, ormai, si ricordano solo i tratti più salienti.

La stessa scena dell’attentato di Capaci al Giudice Falcone, nella sua violenza tanto efferata, viene rappresentata come una sequenza improvvisa e non del tutto collegata alla narrazione, in modo da imprimerla nello sguardo dello spettatore, ma senza che vengano rappresentati i momenti precedenti all’atto. In breve, è come se il regista ci stesse suggerendo un’amnesia collettiva delle coscienze: ci si ricorda e si è attratti dall’efferatezza e dall’imponenza di un fatto storico, ma spesso non ci si ricorda delle cause che lo hanno provocato.

Non è un caso, infatti, che al termine del film io, come gli amici Giovanni e Ilaria che mi hanno accompagnato al cinema, mi sia sentito in colpa. Ci siamo fermati al lato della strada a riflettere su quanto fossimo impreparati e poco partecipi di una storia, quella appena vista, nemmeno troppo lontana negli anni.

Un problema decisivo e di cui il dibattito attuale italiano, concentrato essenzialmente sulle migrazioni, sembra essersi dimenticato e che ogni tanto si risveglia nella cronaca quotidiana, più spesso per il merito di alcune Associazioni, che per quello della classe dirigente che, taciturna, dimentica volutamente.

La testimonianza di Buscetta che spiegò all’Italia che cos’era la Mafia è, infatti, relegata nei verbali di qualche interprete attento della democrazia che per rendersi credibile all’opinione pubblica, per essere ascoltato, ha perso la vita in modo drammatico.

Il “Traditore” vuole essere un atto di cittadinanza attiva, un atto di giustizia verso chi, come Giovanni Falcone pronunciò una volta provocatoriamente in una trasmissione televisiva, afferma che per essere credibili ed ascoltati in Italia bisogna finire ammazzati.

Ne consiglio la visione a tutti.

Soprassedete alla lunghezza del film (più di 140 minuti) e riflettete quando sarete usciti!

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