Guerra in Yemen: un’emergenza umanitaria nella scacchiera geopolitca del Golfo


La catastrofe silenziosa. La guerra dimenticata. Non mancano le parole per definire il conflitto armato che infuria da quattro anni in Yemen. Ciò che manca è una risoluzione che ponga fine al disastro umanitario che ne sta conseguendo.

Risale al 25 marzo 2015 l’inizio dell’operazione “Asifat al Azm” (tempesta decisiva) lanciata dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati per restaurare il governo del presidente Abd Rabbo Monsour Hadi rovesciato dall’azione dei ribelli Houthi, minoranza sciita del Paese. Questi ultimi, inizialmente guidati dall’ex presidente Abdullah Saleh, spodestato anche per volere della stessa Arabia Saudita a seguito della primavera araba del 2011, nel settembre 2014 hanno preso il controllo della capitale Sana’a e delle aree occidentali del Paese, compresi i territori in cui passano gli oleodotti.

Dalla primavera di 4 anni fa a oggi la coalizione guidata dal principe saudita Mohammed bin Salman, di cui fanno parte diversi paesi africani e arabi tra cui Emirati Arabi Uniti ed Egitto, ha condotto circa 18mila raid aerei, di cui uno su tre su obiettivi non militari, provocando la morte di oltre 60mila civili yemeniti e generando una situazione di totale emergenza umanitaria: 18 milioni di persone non hanno al momento accesso ad acqua e servizi igienici, 90mila bambini sono morti per denutrizione e 10 milioni di minori non stanno ricevendo cure mediche adeguate.
Ulteriore aggravante è la più grande epidemia di colera al mondo che sta imperversando da due anni nel Paese con 1 milione di casi segnalati.

Un conflitto quello yemenita alimentato anche dal contributo dei Paesi Occidentali, USA in testa (seguiti da Francia e Regno Unito), che sin dall’inizio si sono attestati nel ruolo di fornitori d’armi agli stati membri della coalizione.

L’alleanza Stati Uniti-Arabia Saudita, le cui radici risalgono al secondo dopoguerra con un accordo tra l’allora presidente Roosvelt e il re saudita Ibn Saud (il primo garantiva sicurezza al secondo in cambio di petrolio), si è forgiata negli anni in chiave anti-iraniana: l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita, infatti vede nell’Iran, patria dello sciismo, una minaccia nell’area del Golfo date le sue presunte ambizioni espansionistiche che, agli occhi del principe saudita, ma anche dell’amministrazione Trump che sta contribuendo in modo determinante a dare fondamento a questa teoria, al momento si starebbero concretizzando in un supporto concreto all’azione dei ribelli Houthi, anch’essi appartenenti alla corrente musulmana sciita.

Date queste implicazioni non risulta dunque di difficile lettura la recente decisione di Trump di esercitare per la seconda volta dall’inizio del suo mandato il suo potere di veto al fine di opporsi alla risoluzione proposta dal senatore “indipendente” Bernie Sanders e approvata lo scorso dicembre dal Congresso e dal Senato anche grazie al voto di alcuni esponenti del partito repubblicano. Il provvedimento condannava il conflitto e chiedeva la sospensione dei finanziamenti americani alle forze della coalizione.

La risoluzione nasceva anche come risposta all’indignazione dell’opinione pubblica a seguito dell’uccisione, avvenuta lo scorso 15 novembre, del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi collaboratore del Washington Post avvenuta tra le mura del consolato dell’Arabia Saudita a Instanbul per mano di un commando il cui mandante si presume essere il principe eriditario saudita.

L’onda lunga di questo scandalo è stata probabilmente la chiave per il successo della conferenza di pace a Stoccolma di dicembre fortemente voluta dall’inviato dell’Onu Martin Griffith. In questa occasione, il 13 dicembre scorso, è stato fatto un primo passo per sventare un ulteriore peggioramento della crisi umanitaria in corso: l’accordo prevede infatti un ritiro delle forze armate ribelli dalla zona del porto di Hodeida, dal quale passa la maggior parte dei rifornimenti destinati alla popolazione yemenita, e la creazione di corridoi umanitari per permettere l’approvvigionamento di milioni di civili. Il ritiro dei ribelli dalla zona è iniziato effettivamente nelle ultime ore ed è un primo segno di speranza per una popolazione messa in ginocchio da una guerra che non va dimenticata.

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