Continua la protesta in Algeria: la piazza chiede democrazia


La protesta in Algeria non accenna a fermarsi. Dopo cinque venerdì di manifestazioni, le piazze del Paese sono sempre più piene, i settori della popolazione coinvolti sempre più numerosi. I metodi dei dimostranti sono pacifici quanto è chiara la loro richiesta: fine del governo Bouteflika, subito.

Il perché è facile da capire: l’anziano presidente, al potere dal 1999, nelle scorse settimane aveva dichiarato di volersi candidare alle elezioni per un quinto mandato. L’annuncio aveva fin da subito scatenato le proteste di piazza, costringendo Bouteflika a tornare sui suoi passi.

Lungi dal cedere alle richieste dei manifestanti, tuttavia, oltre a ritirare la sua candidatura il presidente ha rinviato a data da destinarsi le elezioni previste per il mese di aprile. Restando di fatto al timone in attesa della formazione di un governo tecnico che dovrebbe riscrivere la Costituzione.

Garanzie del tutto insufficienti per la piazza, che ha proseguito con decisione le proteste con il format lanciato in Francia dai Gilet Gialli: un giorno fisso di protesta a settimana – in questo caso il venerdì – per dimostrare al governo tutta la propria forza.

È proprio su questo braccio di ferro che si gioca la partita decisiva: come spiega Pierre Haski su Internazionale, se il regime vedrà calare la spinta della piazza proseguirà deciso sulla strada che gli consente di mantenere il potere. In caso contrario, prima o poi dovrà scegliere se ricorrere all’uso della forza o cedere alle richieste dei manifestanti.

Per il momento la piazza pare in netto vantaggio, anche perché le manifestazioni si sono svolte in un clima festoso e pacifico, alimentate dall’ironia dei tanti giovani che rappresentano il cuore della protesta oltre che la maggioranza della popolazione algerina (per il 70% under 40).

Dal rappresentativo «Volevamo elezioni senza Bouteflika, ci tocca Bouteflika senza elezioni» fino al corrosivo «Fai come i dinosauri, estinguiti!», gli slogan rimbalzano dalla piazza ai social, mentre i manifestanti rivendicano l’eredità del movimento di liberazione dal colonialismo francese.

Al sostegno di diversi esponenti della scena musicale – le cui canzoni, in alcuni casi composte per l’occasione, sono diventate la colonna sonora della protesta – si affiancano iniziative di boicottaggio: in molti per esempio hanno scelto di disertare la partita di Coppa d’Africa contro il Gambia, per la quale sono stati venduti pochissimi biglietti.

Buona parte della stampa algerina è dalla parte dei manifestanti, mentre si segnalano casi in cui la polizia si è unita alle proteste e persino l’esercito – come sempre decisivo in questo tipo di situazioni – si è reso protagonista di qualche timida apertura nei confronti del cambiamento.

In uno scenario del genere, viene da chiedersi quali ostacoli si frappongano tra i manifestanti e il successo delle loro istanze. In realtà, sono almeno tre le criticità di cui il movimento dovrà tener conto per riuscire nell’intento di affermare un vero cambiamento nel Paese.

Prima di tutto la necessità di organizzarsi politicamente: perché un conto è manifestare – pur in modo efficace e continuativo – altra cosa è elaborare proposte e accreditarsi autorevolmente per il rinnovamente radicale del Paese.

Segnali positivi in questo senso paiono già esserci: la protesta, infatti, è in parte guidata da esponenti dell’opposizione al governo Bouteflika, che se non si faranno tentare da soluzioni di continuità potrebbero mettere la loro esperienza politica a disposizione del cambiamento.

Un altro rischio per la piazza è il richiamo delle istanze islamiste più radicali. Un’osservatrice attenta come Giuliana Sgrena segnala sul Manifesto che al momento la maggior parte di questi proclami arriva dall’Egitto, al solo scopo di screditare il movimento di protesta agli occhi dell’opinione pubblica.

Ma bisognerà comunque vedere se e quanto la società algerina – che Sgrena ritiene diffidente rispetto a questo tipo di sollecitazioni – saprà rendersi autonoma da simili dinamiche, anche per evitare il ripetersi di tensioni come quelle egiziane sfociate nell’attuale regime militare di al-Sīsī.

Da ultimo, non va trascurata la possibilità di un colpo di coda da parte del governo in carica. Perché il problema non è (solo) il presidente Abdelaziz Bouteflika, ultraottantenne sostanzialmente inabile a governare dopo l’ictus che l’ha colpito nel 2013.

Il vero problema è l’establishment che lo sostiene, formatosi intorno alla sua famiglia e al suo clan. Un gruppo di persone che, dopo aver alimentato sistematicamente la corruzione e portato il Paese in una situazione economicamente disastrosa, farà tutto quanto in suo potere pur di non rinunciare ai privilegi acquisiti nel corso degli ultimi vent’anni.

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