La “legge schiavismo” e una nuova opposizione minacciano lo status quo in Ungheria


Il 2018 è stato un anno che si è caratterizzato in maniera decisiva come l’anno della crescente popolarità della destra in molti paesi. Fra i personaggi politici più popolari e controversi, Matteo Salvini in Italia e Jair Bolsonaro in Brasile (che è arrivato ad essere eletto presidente), accomunati da idee e dichiarazioni pubbliche molto radicali e per quanto riguarda Bolsonaro anche retrograde in materia di parità di genere e razziste. Una pendenza dell’asse politico verso il nazionalismo e l’antiliberalismo, che era già ben visibile alla fine del 2017 e si è solo accentuata sempre più.

Il leader più rappresentativo di questa tendenza da un paio di anni a questa parte è Trump e la questione più importante e calda quella dell’immigrazione, dovuta ai crescenti flussi migratori. In linea generale le politiche messe in atto da lui e da altri capi di stato sono state misure o proposte di contenimento dei flussi migratori o di chiusura verso l’esterno per arginare il problema. Le frontiere sono diventate il protagonista di questi tempi e il muro, figurativamente e non, la soluzione più semplice e più ricercata.

Invece, il leader fondatore di questa tendenza fu Viktor Orban, che nel 2015 arrivò la sua nazione come uno stato illiberale, promulgando la necessità di abbandonare i valori liberali: “Stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale, uno stato non liberale”, perché “i valori liberali dell’occidente oggi includono la corruzione, il sesso e la violenza”. Il suo autoritarianismo si è infiltrato in molteplici aspetti della società ungherese e ha assunto diverse forme: un pungo di ferro nei confronti dei senzatetto, solo per citare un esempio, destinati a detenzione forzata nel caso di un loro rifiuto ad essere internati in strutture apposite e sovraffollate e privati dei loro beni materiali e dei loro animali di compagnia. Un provvedimento legale messo in atto in un intento di controllo sociale, in maniera spaventosamente rigida.

Il governo di Orban, però, si è reso famoso soprattutto per l’immensa campagna anti-immigrazione, iniziata nel 2015 con l’eclatante decisione (poi messa in pratica), di erigere un muro con filo spinato lungo il confine con la Siria, per evitare l’entrata irregolare di rifugiati siriani in fuga dalla guerra e dall’ISIS. La campagna dipingeva gli immigranti come una minaccia per la stabilità sociale, per la giustizia e per il lavoro. Orban è diventato un eroe per i governi di estrema destra dell’Europa, un esempio da seguire per l’es consigliere di stato di Donald Trump, Steve Bannon.

Queste scelte autoritarie e populiste sono ciò che ha permesso al suo partito (Fidesz) di ottenere la vittoria nelle ultime elezione e a Orban di essere eletto per il suo terzo mandato. Ma recenti proteste stanno smuovendo le acque e facendo emergere molto lentamente partiti minori di opposizione che vogliono avere una voce in capitolo e combattere lo status quo. Cosa difficile da fare visto il controllo da parte del governo di molti media di comunicazione, ma si tratta comunque di un’opposizione in crescita.

Ciò che ha scatenato le rivolte in 12 città ungheresi e l’entrata in scena dell’opposizione in maniera più significativa è stata la cosiddetta “legge schiavitù”, che permette ai datori di lavoro di poter chiedere ai dipendenti di fare straordinari fino a sei giornate lavorative alla settimana in totale, ovvero 400 ore di straordinari in più all’anno. Un’opportunità che molti datori di lavoro sono portati a sfruttare e molti dipendenti si sentono capaci di rifiutare, per timore di essere licenziati. Da qui il nome legge “schiavitù”. Questa legislazione nasce da una mancanza generale di risorse lavorative in Ungheria, sia a causa della politica contro gli immigrati, sia a causa di una grande parte della popolazione in età anziana, che hanno portato al preoccupante tasso del 3,7% di disoccupazione.

Il nuovo partito emergente d’opposizione si chiama Momentum, guidato dalla trentunenne Anna Donath. È nato nel 2014, grazie ad un gruppo di studenti tornati in Ungheria (dopo aver vissuto all’estero) per opporsi alla decisione del governo ungherese di non candidare il paese per ospitare le Olimpiadi del 2024. Nelle ultime elezioni il partito non è riuscito a ottenere la percentuale minima per entrare in parlamento, ma sta conquistando poco a poco la parte giovane della popolazione e rappresenta la speranza di un’alternativa all’autoritarianismo di Orban, per l’Ungheria e per tutta l’Europa.

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