Widows (2018) di Steve Mcqueen – Recensione


Le due assolute protagoniste di Widows: Viola Davis ed Elizabeth Debicki.

C’è la durezza, c’è il risentimento, l’emancipazione di 12 anni schiavo.

Si rivede l’alienazione urbana delle grandi metropoli americane che avevo tanto apprezzato in Shame, 2011, con uno strepitoso Michael Fassbender.

Della nuova pellicola del regista britannico, Widows, eredità criminale, non si può dir male; eppure, quando per la prima volta, già diversi anni fa, mi approcciai alla visione di Hunger, avevo avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad un nuovo genio.

Grazie alla crudeltà spudorata, alla recitazione muscolare dei suoi attori, al montaggio delle scene tagliate con l’accetta (ricordate il suono degli strumenti da lavoro in 12 anni schiavo?), Steve Mcqueen aveva mostrato di possedere il potere di frantumarti il cuore e le membra.

Non si scappava dal dolore fisico (Hunger), dall’angoscia psicologica (Shame) e dalla rabbia (12 anni schiavo); si restava come impantanati in un fango appiccicoso.

Uscito dal cinema domenica sera, la sensazione è quella di un regista che non ha perso l’occasione di riaffermare il suo talento, ma che, nel corso degli anni, come sovente accade alle grandi novità artistiche, ha perso smalto. 

Al netto di una recitazione ancora una volta spettacolare dei protagonisti (Viola Davis straordinaria), un montaggio sopraffino, inquadrature prospettiche e pregevoli simmetrie (su tutte merita, in particolare, la scena terribile del sangue sulla pista da bowling e la carrellata sull’automobile del politico bianco – un Colin Farrell che si dimostra nuovamente efficace -.), non si riesce a intravedere la novità e l’attualità delle tematiche affrontate.

Devo precisare che anche in questa pellicola si discute certamente di tematiche attuali; tuttavia, manca la novità nel raccontare la vendetta o nel rappresentare così pervasivamente argomenti attuali ma trascurati. E infatti, corruzione, criminalità, odio razziale e fondamentalismo religioso costituiscono l’ordine del giorno delle periferie delle grandi metropoli; meno evidente, ma pur sempre attuale e diffusa, è la dipendenza da pornografia internet e dal sesso occasionale, così ben rappresentati in Shame.

D’altro canto vanno segnalate alcune cadute di stile della sceneggiatura (su tutte la bambina che nel negozio di armi dice alla madre: “Mamma, dici sempre che la pistola è la tua migliore amica”), talune illogicità della trama (evidenti soprattutto nel finale) e un uso altalenante dei flashback (bellissimo all’inizio nella sequenza della rapina finita male, un po’ scontato nelle apparizioni oniriche di lei).

Lo spirito anarchico dell’alleanza fra le quattro protagoniste che si ritrovano, a causa di un colpo finito male, improvvisamente vedove e private di ogni affetto e sostentamento economico da parte dei loro mariti, fa da protagonista a un film che, pur mantenendosi su altissimi livelli di regia, credo sia il più debole ed il meno apprezzabile della cinematografia del regista britannico.

Nel segno della più antica tradizione criminale, le 4 donne (due afroamericane, una sudamericana e una polacca – scelta evidentemente non casuale in una delle città, Chicago, più multietniche al mondo) rimangono quasi del tutto ignare delle malefatte dei mariti, fino a che la loro morte non le presenta il conto. Un conto salatissimo ed una corsa contro il tempo che sembra disperata.

Alcune di queste donne sono picchiate, altre tradite, altre ancora abbandonate: la loro alleanza, suggellata da un diario e da un magazzino in disuso, è un trionfo sulle ipocrisie dei loro persecutori.

Anche l’uomo più abile e innamorato (quell’irlandese Liam Neeson che, insieme all’altro, Colin Farrell, ti fa ricordare di essere al cinema e di vedere un film di Steve Mcqueen), si nasconde sotto ipocrisie che, mano a mano che la trama va avanti, risulteranno più evidenti.

Protagonisti indiscussi del film sono altresì la periferia di Chicago, le lotte intestine fra le frange conservatrici bianche e riformiste nere (in entrambi i casi, qui, criminali) impersonate da due candidati politici che coltivano la corruzione a fianco alla facciata del buonismo e dell’orgoglio americano.

Nella mescolanza di orrore, asfalto e verticalità, simile a quelle Badlands che cantava Bruce Springsteen (ci avrei visto bene anche Venus in Furs dei Velvet Underground), il regista compie, però, una scelta che direi essere non propriamente scontata e, dunque, apprezzabile:

Così come era accaduto nei film precedenti in quelle sequenze memorabili come sono la corsa nel bosco del giovane Bobby Sands in Hunger, o la scena del tram in Shame, anche in Widows, sul finale, si intravede il baluginare di un’umanità che da troppo ci raccontiamo come solo crudele.

Una menzione speciale alla colonna sonora: ancora una volta, Hans Zimmer ci dedica un memorabilia da conservare.

Buona visione a tutti.

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