Beren e Lùthien, cent’anni d’amore


Parlare ancora oggi della pubblicazione di nuove opere da parte di un uomo morto da più di quarant’anni sembrerebbe impossibile, eppure è quello che sperimentiamo ormai da tempo nei riguardi dell’opera immensa che è l’eredità di John Ronald Reuel Tolkien. Quest’anno, ormai è appurato, è il centesimo compleanno della nascita di quel ciclo di romanzi, miti e leggende che formano quella che in maniera semplicistica potremmo definire la storia della Terra di Mezzo, o comunque di quel mondo che Tolkien ha curato durante il corso di tutta la sua esistenza, talmente particolareggiato da essere tangibile e amato da milioni di persone.

Nel 1917, in piena Prima Guerra Mondiale, Tolkien è a casa per riprendersi da una malattia contratta al fronte, in attesa del primo figlio, e inizia a gettare i semi di quello che poi sarebbe diventato il Silmarillion, ovvero il nucleo narrativo mitologico del mondo di Arda, la Terra su sui si muovono i suoi personaggi: uno dei racconti centrali, che ritroveremo citato i moltissime delle sue opere, è appunto la storia d’amore tra Beren e Lùthien Tinuviel.

Quello che i suoi lettori più accaniti imparano ben presto è che niente, della letteratura tolkeniana, è di facile lettura o di facile approccio: di ciò che ha pubblicato in vita abbiamo la sua stesura definitiva, con buona pace di tutti, ma di moltissime opere, uscite postume grazie al lavoro certosino del figlio Christopher, esistono spesso decine di versioni, mai davvero ultimate. Per questo chiunque si appresti alla lettura di Beren e Lùthien come ad un qualsiasi romanzo fantasy ne resterà certo deluso: questo libro è prima di tutto un’opera filologica, in cui Christopher Tolkien tenta di dipanare la matassa intricata di quello che è uno dei primi miti della Terra di Mezzo, di cui suo padre ha lasciato diverse tracce, spesso cambiando leggermente la trama o alcuni nomi di personaggi, in un periodo di tempo che va dal 1917 alla sua morte.

Ciò che possiamo affermare con certezza è il coinvolgimento emotivo dell’autore in questa saga: Tolkien fa incidere il nome Lùthien sotto a quello della moglie e Beren sotto al proprio sulla loro lapide condivisa, nel cimitero di Wolvercote a Oxford. Ma di cosa parla davvero questo racconto? Lùthien è la figlia di Thingol, Re di Doriath, prima tra tutte le fanciulle elfiche per bellezza, sì, ma anche per potere, essendo da parte di madre una creatura semi-divina, mentre Beren viene definito sia un Uomo che uno Gnomo, ovvero una creatura elfica di lignaggio inferiore che non ha mai visto la luce del Valar. Non sto ad addentrarmi troppo nella complicatissima cosmologia del Silmarillion, quanto basta per semplificare dicendo che, in sostanza, abbiamo a che fare con la base dei topos epici: il tizio comune si innamora della fanciulla di stirpe regale e gli viene affidato un compito impossibile in cambio della mano di lei, compito che riuscirà a portare a termine solo grazie all’aiuto della fanciulla stessa. Ed è qui che il racconto si fa davvero mito: è Tinuviel la vera protagonista, che affronta ogni prova per amore del suo Beren, fino alla discesa negli inferi come un Orfeo al contrario.

Lùthien è la Stella del Mattino come Arwen è la Stella del Vespro, a sottolineare il parallelismo tra queste due figure femminili: entrambe considerate le più belle della propria stirpe (Arwen è una pro-pro-nipote di Lùthien), ed entrambe sacrificano la propria immortalità per amore e per proteggere il mondo dal Male. Aragorn stesso, raccontando di questo mito a Frodo, riconosce il cammino comune delle due fanciulle, rimpiangendo di essere la causa della nuova terribile perdita che affliggerà i Sindarin.

È decisamente affascinante leggere la ricostruzione delle diverse versioni del mito, e aiuta nella comprensione della complessità del ciclo tolkeniano; quel pazzo di un inglese non si è limitato a scrivere dei romanzi fantasy ma, come molti hanno sottolineato, ha creato un’intero universo, perlopiù coerente con sè stesso, basandosi sui propri approfonditi studi della mitologia europea e un amore per il dettaglio semplicemente sbalorditivo. Certo, la maggior parte del materiale deriva dagli anni di lavoro del figlio Christopher, a cui dobbiamo anche quest’opera, e al suo rimettere insieme centinaia di carteggi e appunti lasciatigli dal padre; oggi Christopher Tolkien ha novantatré anni, e possiamo quindi ragionevolmente pensare che Beren e Lùthien sarà la sua ultima opera.

Non voglio addentrarmi nell’annosa questione delle rivendicazioni politiche dell’epopea di Tolkien: non solo chi ha letto le opere di questo autore sa benissimo che si tratta di un material talmente ampio da poter essere interpretato in moltissimi modi diversi, ma Tolkien stesso ha più volte negato questo genere di riletture, e come tale rispettiamo la volontà dell’autore.

Bisogna quindi approcciare questo libro con cautela, prima di tutto per la sua complessità intrinseca, e secondariamente perché vi farà venire voglia di riprendere in mano il Silmarillion e da lì il passo è breve e vi sarete riletti pure Roverandom, tanta è voglia di tornare ancora a passeggiare sotto le fronde di Lòrien.

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