Firenze a spicchi: Dal Coach al Presidente, capitolo 1


Siamo nel centro-nord Italia. Il clima è tendenzialmente mite e ci sono due squadre che giocano nello stesso identico campionato.
Queste due squadre calcano due campi da gioco molto famosi nell’immaginario collettivo locale.
Hanno una storia singolare alle proprie spalle e non si possono vedere, accendendosi ad ogni derby.
Non siamo a Bologna.No, qui i tortellini c’entrano ben poco e ci offendiamo pure se non viene rispettata la “nostra” cultura culinaria. Siamo comunque poco più sotto, un’ora di macchina forse più, specie se si usa quella bella variante che hanno costruito da poco. Per quanto riguarda il nome, il cerimoniere del Calcio Storico la chiama ‘Fiorenza’, il resto del mondo fuori dai confini peninsulari la conosce come ‘Florence’, mentre per tutti gli altri questa è solo e soltanto Firenze.

 

FIRENZE A CANESTRO
Da qui partiamo in un viaggio semi-immaginifico sfrecciando con la nostra macchina del tempo a periodi come quello della Neutro Roberts, così belli e così sfavillanti e toccheremo pure personaggi che da qui sono passati ben prima di J.J. Anderson e Clarence “King Kong” Kea, che al contrario di questi due signori, il proprio nome non riscuote e non riscuoterà mai tutta questa eco nel resto d’Italia. L’importante, come ogni viaggio reale o mentale, è che si parta e per partire è indispensabile porre una domanda: “Quando tornerà il grande basket a Firenze?”.
Allontanatevi se ve la pongono. Sorridete, siate cortesi ma girate la testa e fuggite. Se per il resto d’Italia il Jingle catartico d’ordinanza è “E i Marò?” chiesto con fini simpatici, nella Firenze fattispecie cestistica è questo, rivolto però con un’alta dose di serietà.
“Quando tornerà il grande basket a Firenze?”.
Se proprio non volete fuggire e decidete di restare coi piedi piantati davanti all’incognita, bisogna innanzitutto chiedersi: “Ma c’è mai stato il grande basket a Firenze?” e poi: “Ma con Grande Basket si intende la A1?”. Se alla seconda domanda la risposta è SI, allora anche la prima è necessariamente SI: in tre stagioni, due delle quali consecutive, 1986/87 e dall’89 al 91. Erano le stagioni in cui l’effige della Neutro Roberts ballava davanti alle casacche dei gigliati. Erano le stagioni dei due giocatori sopracitati ma soprattutto erano le stagioni di un allenatore che cavalcando il momento migliore della pallacanestro fiorentina, ne ha fatto la storia, quella vera: Rudy D’Amico.

 

COACH RUDY D.
Siamo più o meno sull’onda del meraviglioso personaggio perfettamente cesellato da Al Pacino in “Any Given Sunday” (Ogni maledetta domenica, ndr), Tony D’Amato. La piazza lo adorava, almeno quella dei tifosi (sul campanilismo debordante torneremo in seguito), i giocatori lo seguivano e va detto che essere un americano in Italia fa sempre un certo effetto!
Dopo aver vinto una coppa intercontinentale, una coppa dei campioni ed una coppa di Israele tra il 1980 e l’81 con il Maccabi Tel Aviv, decide di accettare l’offerta dell’allora Pallacanestro Brindisi e dopo la Puglia, Trieste, cinque partite alla Fortitudo ed una parentesi spagnola, approda nella patria di Dante, con la testa ricolma di speranze ed il cuore palpitante e desideroso di iniziare. La faccenda, a dirla tutta, era presso che delicata dato che dopo i primi successi israeliani le sue quotazioni come allenatore sono andate molto a sud, complice stagioni deludenti ed obiettivi non raggiunti (ad esempio a Brindisi doveva salvarsi, senza successo). La città però era in fermento per questo eroe del pino solitario, così diverso da tutti noi che eravamo e siamo tutt’ora abituati a metterci la salsa di pomodoro sulla pasta al dente, anziché il ketchup e che al mattino al signore in divisa dietro a bancone ed occhiaie ordiniamo caffè macchiato o cappuccio, invece che un parzialmente scremato in barba allo stomaco e reazioni indiscrete. Due mondi così culturalmente lontani che si intersecano per portare in città qualcosa di bello, qualcosa di divertente.

Rudy D. tra l’altro appena arrivato venne convocato per una riunione con tutti gli allenatori di Firenze, i quali un po’ scettici volevano capire cosa ci fosse dietro all’aspetto piacente del signore da New York. Il moro, un po’ risentito, avanzò l’idea di poter dirigere un allenamento con i lor signori allenatori come giocatori. Dopo cinque minuti nessun naso era più storto, dopo dieci minuti gli occhi erano fuori dalle orbite, dopo due ore tutti avevano bisogno del polmone d’acciaio. Stretta di mano e benedizione alquanto conseguenziale.
Starà nel territorio gigliato per 5 stagioni, precisamente dal 1985 al dicembre del 1990, quando la brutta stagione della Neutro Roberts che a fine anno troverà l’ennesima ed ultima retrocessione in A2, lo costringerà a dimettersi con il conseguente avvicendamento di Marco Calamai. Quei 5 anni erano un sogno per i bambini ancora piccoli che potevano vedere i giganti della pallacanestro al Mandela Forum. La Neutro Roberts ottenne due promozioni nella massima serie, intervallate da altrettante retrocessione, forse per un roster non così all’altezza dell’A1 di allora.
Rudy D’amico poi continuerà ad allenare in Italia, in quanto nei suoi 5 anni a Firenze, troverà anche la donna da sposare, permettendogli di poter restare a vivere in quella città che gli ha dato così tante soddisfazione, alternate ad amare delusioni.

Pensare, però, che dietro a quel periodo florido di pallacanestro ci sia solo l’effige del Coach, vuol dire che non abbiamo capito nulla di pallacanestro. Dietro ad ogni coach che si rispetti, ci vuole anche un GM all’altezza, o un presidente o proprietario. La figura di presidente di quella Neutro Roberts era affidata ad un personaggio molto famoso nel tessuto sociale fiorentino, che si chiamava Giuseppe Varrasi, tristemente scomparso nel 2010.

 

VARRASI L’INIZIO DELLA PALLACANESTRO
Dopo le bombe e l’occupazione nazista, Firenze vuole ritornare a fare le cose che faceva prima, voleva trovare normalità dopo un periodo buio e cupo e se possibile, volevano anche tornare a sorridere e divertirsi un po’. Nel 1948 sboccia la prima creazione cestistica fiorentina. Il nome che fu scelto era un comunissimo Pallacanestro Firenze, venendo poi accantonata e sostituita con un più localizzato “Ponterosso” (scritto così, tutto attaccato), in onore alla zona dove nacque tale società, in pratica accanto al passaggio a livello di via faentina, una zona in mezzo allo stadio, al centro ed allo statuto.
Varrasi nacque solo 10 anni prima a Siracusa e mentre cresceva decidendo di venire a fare l’imprenditore a Firenze, il Ponterosso vivacchiava in categorie basse, non certo degne agli onori della cronaca nazionale. Nel 1970 le strade di Varrasi e della pallacanestro fiorentina si unirono in maniera indissolubile, nel ’71 portò alla fusione tra Ponterosso con la vicina società sportiva Congre ed insieme conquistarono 3 dei successivi 4 campionati disputati prendendosi un posto in serie B. Poi nella stagione ’81/82 finalmente arriva anche l’approdo in A2.
Varrasi è il Re incontrastato della pallacanestro fiorentina, il leader silenzioso che pensa solo al bene del basket e dei ragazzi fiorentini. Già, silenzioso. Mai stato un tipo da articoli e strilloni e non ha mai voluto che la sua faccia colonizzasse le colonne sportive dei giornali di allora e di poco fa, preferendo sempre rimanere dietro le quinte, preferendo che si parlasse dei suoi ragazzi, dei suoi allenatori e della sua società.
Purtroppo proprio per questo motivo, reperire materiale su di lui che vada oltre la nuda cronaca è veramente difficile, al massimo si può chiedere a chi lo conosceva bene oppure, potendo permettermelo, accingere a mani unite dalla personale esperienza di chi vi scrive, il quale ancora 17enne si ritrovò davanti questo signore dalla testa bianca/grigia che tutto poteva sembrare tranne un dirigente di Basket.
Effettivamente le parole che sei obbligato a spendere per quest’uomo sono di totale rispetto. Un uomo veramente rispettoso e pronto a fare di tutto per lasciarti compiere il tuo lavoro con professionalità e serietà, a parte le volte in cui confondeva Andrea Zerini con me e viceversa.
Non venendo quasi mai convocato durante la mia prima stagione in B1 (i giocatori in panchina erano massimo dieci ed io ero il dodicesimo nonché ultimo), dovevamo mantenere un certo stile in tribuna con pantalone jeans e felpa societaria. Una domenica arrivai al palazzetto senza la felpa per via di un brutto disguido con la lavatrice. Lui se ne accorse, mi chiese spiegazioni e mi disse: “Aspetta qui!”. Tornò 10 minuti più tardi con una felpa nuova: “Non ti far vedere da Bastagli (patron Everlast) e dal coach Russo che non hai la felpa, altrimenti te le dicono di tutte!”. Mi cambiai velocemente ed evitai l’ennesima ramanzina. Lo ringraziai calorosamente, rivelandosi ancora di più un uomo gentile ed appassionato che non pensava solo ai giocatori senatoriali ma anche a tutti i ragazzi aggregati.
E molti lo ricordano per quello che faceva anche appena fuori dal campo, durante le riunioni societarie dove non erano nuove le lunghe litigate, specie negli uffici del Ponterosso, quando cercavano di capire cosa fosse meglio fare, a volte venendo anche alle mani. Litigate poi sempre stemperate in piazza Giorgini, al ristorante dei fratelli Briganti, davanti ad un inimitabile spaghettino al pomodoro fresco, consigliato con un goccio di olio piccante e parmigiano a cascata.
Se ne è andato nel 2010 in silenzio, alla sua maniera, lontano dagli onori della cronaca. Con lui è morta una fetta di quel basket fiorentino che per anni ha respirato l’aria della massima serie, assaporato il sogno e che ha generato la frase a cui dovete scappare, ricordatevelo, se mai vi viene posta: “Quando tornerà il grande basket a Firenze?”. Con lui, il grande basket, c’era sempre.

Qui per la seconda ed ultima puntata sulla storia del basket fiorentino, dove affronteremo il tema dei campanilismi, l’Everlast Firenze ed il basket ai giorni d’oggi.
Non mancate.

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