Terrore e sangue in Turchia: strategie e tradimenti del governo Erdogan


Capodanno. Quartiere di Besiktas, nella zona europea della città di Istanbul. Un uomo armato di kalashnikov entra nel night club “Reina” e apre il fuoco uccidendo 39 persone e ferendone almeno altre 70.

Pochi giorni dopo arriva la rivendicazione dell’ISIS che definisce il responsabile della strage un “soldato del califfato che ha attaccato il più famoso nightclub dove i cristiani celebravano la loro festa pagana”.

Il 2017 in Turchia si apre dunque esattamente come si era chiuso il 2016: nel segno del terrore e del sangue.

Quello del “Reina” è solo l’ultimo di una lunga scia di attentati che ha scosso profondamente lo stato turco negli ultimi due anni.

Tra i più sanguinosi quello del 20 luglio del 2015 nella città curda di Suruç in cui persero la vita 34 attivitisti filocurdi impegnati nella ricostruzione della città siriana di Kobane, occupata dall’ISIS, autore dell’attentato stesso.

Il gruppo jihadista ha rivendicato anche la strage del 10 ottobre 2015 ad Ankara: 103 persone hanno perso la vita in seguito all’esplosione di due ordigni davanti alla stazione ferroviaria. Si trattava per lo più di attivisti, sindacalisti e militanti dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli, forza d’opposizione curda) che si preparavano a partecipare a una manifestazione per la pace.

La prima ondata di terrore che si è abbattuta sulla Turchia a inizio del 2016 portava invece la firma del gruppo curdo Tak (Falchi per la Liberazione del Kurdistan, staccatisi già da diversi anni dal Pkk): il 17 febbraio un’autobomba è scoppiata in pieno centro ad Ankara uccidendo 29 persone, per lo più militari, mentre il 13 marzo nella stessa città un’altra autobomba ha causato 38 morti.

Il 28 giugno è stata la volta dell’aeroporto di Istanbul: 3 attentatori hanno aperto il fuoco nel terminal dei voli internazionali uccidendo 41 persone e ferendone 239. L’attentato non è mai stato ufficialmente rivendicato, ma si sospetta che sia stato perpetrato dell’ISIS.

Il 10 dicembre infine il gruppo Tak affonda un altro colpo organizzando un doppio attacco dinamitardo fuori dallo stadio di calcio del Besiktas (nelle vicinanze del “Reina”): il bilancio finale è di 44 vittime. Il governo turco di Erdogan risponde con una serie di arresti a tappeto soprattutto tra i membri del partito filo-curdo d’opposizione Hdp, che si vanno ad aggiungere ad altri colleghi incarcerati il 4 novembre in seguito a un attentato alla sede della polizia della città di Diyarbakir.

Una lunga serie di attentati di cui, se da una parte non è ancora dato sapere quale ne sarà la coda, di sicuro ne è stato mostrato il capo, ovvero le cause che hanno portato allo scatenarsi di una violenza così efferata.

Per quali motivi la Turchia è diventata uno dei bersagli privilegiati dell’ISIS e dei gruppi estremisti curdi? La risposta la si ritrova appena oltre confine, in Siria, paese ormai dilaniato da una guerra civile scoppiata nel 2011.

Un conflitto in cui la Turchia ha giocato sin dal principio un ruolo attivo: inizialmente il presidente turco Erdogan si era apertamente schierato contro il regime siriano di Bashar al Assad (appartenente alla comunità alawita di origine sciita) alleandosi con i ribelli sunniti, chiudendo un occhio verso l’ISIS, già da qualche anno impegnato nella lotta contro i curdi siriani considerati nemici della Turchia, e permettendo il passaggio di armi e foreign fighters attraverso il confine turco-siriano.

Un anno e mezzo fa circa la svolta, cambiano le carte in tavola: da una parte gli Stati Uniti iniziano a sostenere i curdi siriani nella guerra contro l’ISIS ottenendo importanti risultati, mentre dall’altra la Russia interviene a favore del regime di Assad, in quel momento in grave difficoltà, ribaltando le sorti del conflitto.

È l’estate del 2015 e in Turchia si assiste a due episodi chiave: il fallito golpe del 15 luglio e il già citato attentato del 20 luglio per opera dell’ISIS.

Conseguenza del primo è una svolta fortemente autoritaria del governo turco e l’arresto, tra gli altri, di numerosi funzionari dell’antiterrorismo, che ha portato alla creazione di una falla nelle forze di sicurezza nazionale responsabile in parte della riuscita degli attentati sanguinari dei mesi successivi.

Il secondo episodio chiave porta invece il governo Erdogan a ordinare per la prima volta di bombardare obiettivi dello Stato Islamico in Siria e a decidere di invadere quest’ultima per contrastare i curdi siriani a ovest del fiume Eufrate. Un’operazione militare questa non ancora conclusa e condotta in alleanza con il regime di Assad.

Un vero e proprio voltafaccia nei confronti degli ex alleati che ha portato l’ISIS a intensificare gli attacchi terroristici sul suolo turco facendo piombare il Paese stesso nel caos. Un caos alimentato dalla paura per i nemici interni (curdi turchi che ingrossano le fila del Pkk e del partito d’opposizione Hdp) e quelli appunto oltre confine.

Le tempistiche dell’attentato dello scorso Capodanno a Istanbul non devono lasciare dunque sorpresi: porta la data 29 dicembre infatti l’accordo Turchia-Russia-Iran  che ha condotto a una tregua in tutta la Siria.

Il governo di Erdogan ufficializza dunque la sua posizione accanto al presidente Assad e sconfessa i gruppi sunniti, che per anni hanno lottato per far cadere il regime sciita siriano e che ora si ribellano contro l’ex Paese amico, la Turchia.

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