L’arte della felicità di Alessandro Rak


L'arte della felicità

Siete in cerca di un buon fumetto e di un buon film? Beh ecco a voi uno dei più preziosi gioielli perduti del nostro paese: L’arte della felicità di Alessandro Rak.

Se per i fumetti Marvel e DC prendiamo in analisi un concept di fumetto mainstream che tutti conoscono, anche se superficialmente, con questa graphic novel e con questo film d’animazione potremo goderci due prodotti grandemente elogiati dalla critica ma lasciati nel dimenticatoio dal grande pubblico, interessato esclusivamente ai trend del momento.

Teatro cinematografico, cartone animato, ritratto decadente, racconto nel racconto… è difficile definire L’arte della felicità con una sola di queste “etichette”.

Sicuramente potremmo definirlo “esperimento ben riuscito”, un’opera che si allontana parecchio dalla concezione di fumetto ed animazione tradizionali, senza esserne inferiore.

La locandina del film L'arte della felicità

La locandina del film L’arte della felicità

Lo stile di Rak, infatti, è molto diverso da quello dei grandi animatori del background italiano come Bozzetto, D’Alò o ancora i Pagot.

Sin dalle prime immagini è trasparente l’intenzione dell’autore di creare un capolavoro nonostante le limitazioni economiche, e quello che ne fuoriesce sono personaggi vivi, dai contorni ruvidi, netti, bruschi: una sorta di bozzetto cangiante in divenire che si adagia sui corpi dei protagonisti, donando loro una plasticità ed un dinamismo trionfanti.

L’arte della felicità però non è solo virtuosismo grafico ma anche uno splendido racconto ambientato tra le strade di una Napoli sporca, devastata da quei problemi fatti venire alla luce da chi l’ha comandata per anni.

La copertina del fumetto L'arte della felicità

La copertina del fumetto L’arte della felicità

Tutto questo fra la disperazione di quei napoletani che non sanno a chi dare la colpa per una città che viene privata della sua bellezza a causa anche di un diluvio inclemente che sarà presente per tutta la durata della storia (o quasi).

Pioggia che dona un velo permanente di malinconia alle due opere ma che permette anche al team di sviluppatori di risparmiare sul budget per le comparse: d’altronde, non si esce con la pioggia se non si è costretti.

Però Rak non intende la città come un enorme mostro solitario, al contrario vuole definirla come una culla che dondola una serie di personaggi radicalmente differenti l’uno dall’altro.

Personaggi che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro ma che hanno comunque e sempre qualcosa da dire.

Sergio Cometa è un tassista che non scende mai dal suo taxi, mette alla prova i suoi ritmi, la sua salute e il suo corpo solo per tentare di fuggire da una realtà che lo ha deluso e sconvolto.

La piovosa Napoli de L'arte della felicità

La piovosa Napoli de L’arte della felicità

Tenta di non pensarci, evitando tutto quello che riguarda il suo passato come fosse lebbra, scarrozza i suoi passeggeri per i quartieri di tutta Napoli in lungo e in largo non capendo che in realtà stà girando in tondo.

Un trauma quanto può cambiare un uomo? Quali sono i modi di reagire al dolore  e alla vita?

L’arte della felicità cerca di darci una risposta.

Sul taxi non salgono solo persone ma punti di vista, vite differenti, opinioni, gusti e speranze. Tutte chiacchiere che si consumano in questa piccola vettura che è anche l’ambiente più frequente della storia.

Sergio Cometa al volante del suo taxi in L'arte della felicità

Sergio Cometa al volante del suo taxi

L’auto non è solo un mezzo anonimo che serve come mero oggetto di scena ma è anche la metafora dell’anima di Sergio: è tappezzata di foto, mozziconi di sigaretta e souvenir che gli ha regalato suo fratello: la persona che ama di più al mondo e che ora si trova molto lontano da lui per una sua particolare scelta, una scelta che li ha divisi.

Quell’auto diventa un confessionale nel quale il protagonista parla con tutti, ascolta con interesse o si confronta con chi vorrebbe che si rialzasse.

Un punto di vista interessante arriva anche dalla radio, che Sergio ascolta come fosse un mantra. È fedele ad un solo canale che alterna i monologhi di un eccentrico DJ a delle canzoni dolcissime che faranno trasversalmente da colonna sonora all’intero film.

Come in una conversazione con un nuovo amico, il micro universo intorno a Sergio svelerà a poco a poco il mistero che aleggia sulla sua figura.

Il DJ ne L'arte della felicità

Il DJ ne L’arte della felicità

Il protagonista non è mai lontano dalla realtà, quello che dice non è sopra le righe e le sue reazioni sono vere, reali, così come tutte quelle dei personaggi secondari. Tutto ciò fa schizzare alle stelle il contatore dell’ immedesimazione, che ci fa dimenticare di stare guardando un film d’animazione o leggendo un fumetto, fino a convincerci che Sergio esiste.

Il dramma, la depressione, la solitudine e il rigetto ci vengono raccontati con sublime naturalezza donando allo spettatore e al lettore una sorta di inno alla vita che mette in discussione il significato della vita stessa.

Offre spunti per ridiscutere la nostra esistenza suggerendoci al contempo di portarla avanti nel migliore dei modi, magari riprendendo tra le mani ciò che ci siamo lasciati alle spalle come un sogno o un’ambizione.

E questa opera ce lo dice quasi direttamente quando Sergio decide di sfogarsi, lasciandosi andare ad un torrente verbale nel quale sembra sfondare la quarta parete per parlare direttamente con noi ma allo stesso tempo a se stesso, cercando di giustificare il suo comportamento, creandosi degli alibi e accrescendo il fattore realismo.

Nonostante qualche silenzio di troppo e alcuni dialoghi talvolta un po’ confusionari, L’arte della felicità è qualcosa che fa bene al cinema italiano (e anche al fumetto).

Abbiamo bisogno di favole moderne, di racconti duri che non ci prendano in giro con la falsa retorica.

L'arte della felicità / 2

La Mad entertainment di Napoli ha saputo confezionare tante belle emozioni e dovremmo ringraziarla per il coraggio. Un coraggio che purtroppo non è stato ripagato dal grande pubblico.

Il film è stato distribuito in pochissime sale ad orari impossibili e questo ha compromesso gli incassi, fermatisi a poco meno di 200mila euro.

Un vero e proprio scandalo, ma finché verranno riservate 6 sale su 12 in un multisala a film come Cinquanta sfumature di grigio, non ci sarà mai spazio per capolavori come L’arte della felicità.

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