Turchia, colpo di Stato e purghe: la svolta autoritaria di Erdogan


Una notte, quella del 15 luglio 2016. Un Paese, la Turchia. Un annuncio sul sito dello stato maggiore dell’esercito comparso intorno alle 21: “Abbiamo preso il potere per proteggere la democrazia e ristabilire i diritti civili”.

IL GOLPE

Queste le premesse di quello che, all’alba del giorno dopo, si rivelerà un colpo di Stato fallimentare tentato da alcuni reparti dell’esercito turco, nomi di seconda e terza fila delle Forze armate che sembra abbiano agito sotto la regia di Muharrem Kose, ufficiale rimosso nel marzo scorso dallo staff dello Stato maggiore turco.

Un volta istituita la legge marziale e disposto il coprifuoco, i golpisti hanno preso il controllo delle reti di telecomunicazioni e hanno bloccato gli accessi a Facebook e Twitter. Si sono quindi concentrati sulle roccaforti del potere del presidente turco Erdogan ad Ankara: alle 22 due F-16 del Quarto Stormo dell’aviazione militare hanno colpito il Parlamento, la residenza presidenziale, il quartiere generale dei reparti speciali del ministero dell’Interno, il comando della polizia e la sede dei servizi segreti. A Istanbul carri armati guidati dai golpisti si sono posizionati nei luoghi chiave (tra cui l’aeroporto) senza aprire il fuoco e hanno chiuso il passaggio per i due ponti sul Bosforo.

All’1.45 l’aereo presidenziale con a bordo Erdogan, che in quel momento si trovava in vacanza a Marmaris sulla costa egea meridionale, è decollato da Bodrum e per quasi due ore ha girato in tondo nei cieli turchi. È stato in quel momento che il presidente turco ha potuto lanciare attraverso FaceTime un chiaro invito alla popolazione a scendere in piazza e opporsi ai golpisti. E così è stato: i cittadini turchi hanno preso d’assalto a mani nude i carri armati cercando di fraternizzare con i giovani soldati coinvolti nel putsch.

Il bireattore di Erdogan è quindi atterrato a Istanbul scortato da una coppia di F-16 dei lealisti che avevano precedentemente intrapreso una serie di duelli aerei con i golpisti sopra ad Ankara.

Dei bombardieri F-4 Phantom lealisti si sono diretti nelle stesse ore verso l’aeroporto di Akinci, da dove era scattato il golpe, e hanno crivellato la pista con ordigni speciali. È stato il segnale della fine del tentato putsch. Gli aeroporti da lì a poco sono stati riaperti, così come i ponti sul Bosforo.

All’alba si sono contate le vittime: più di 300 tra civili, poliziotti e soldati. A queste si aggiungono i 104 golpisti uccisi.

Non c’è voluto molto prima che venisse individuato un capro espiatorio, colui che, secondo i vertici politici turchi è stato la mente del golpe: il magnate e ideologo islamista radicale Fethullah Gulen, ex alleato del presidente Erdogan in passato e ora suo acerrimo avversario tanto da essere costretto a un esilio volontario negli USA dal 1999. A oggi la Turchia ha inviato agli Stati Uniti due richieste di estradizione per l’imam, non ancora accolte: il segretario di Stato John Kerry si è detto pronto a collaborare una volta che verranno mostrate prove concrete del coinvolgimento di Gulen nel putsch.

Quest’ultimo dal canto suo ha negato una qualsiasi sua responsabilità dichiarando inoltre che secondo lui in Turchia è andato in scena un falso colpo di Stato al fine di rafforzare Erdogan.

LE PURGHE DI ERDOGAN

La stretta autoritaria del presidente turco non si è infatti fatta attendere: a oggi sono stati arrestati diecimila soldati e 1.700 sono stati licenziati. Tra i vertici delle forze armate sono stati arrestati 179 generali e 149 sono stato congedati con disonore.

A partire dal 16 luglio è stata la volta dei magistrati: 2.745 sono stati sospesi e 800 arrestati.

Il 21 luglio è stato dichiarato lo stato d’emergenza, che conferisce più poteri a governo e forze armate, e a seguire è stata sospesa la Convenzione europea per i diritti dell’uomo. È stato quindi possibile aumentare da 4 a 30 giorni la durata della detenzione amministrativa.

Sotto lo stato d’emergenza infine sono stati approvati a fine luglio due decreti: il primo ha portato alla sospensione di 21mila insegnanti e alla chiusura di 1.043 scuole private, 1.229 fondazioni e 15 università. Il secondo invece ha portato alla chiusura di 131 media accusati di avere legami con l’imam Gulen. Tra questi tre agenzie di stampa, 16 canali tv, 23 stazioni radio, 45 quotidiani, 15 riviste e 29 case editrici.

REAZIONI DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE

L’attuarsi di una stretta autoritaria sempre più evidente è causa di preoccupazione da parte della comunità internazionale che nella notte del 15 luglio si era schierata apertamente a sostegno del governo turco democraticamente eletto, ma che ora non manca di inviare moniti ad Ankara affinché la reazione al putsch non vada a minare libertà e diritti fondamentali.

I rapporti con USA ed Europa si stanno facendo sempre più tesi. Barack Obama ha bollato come “totalmente falsa” l’insinuazione secondo cui il suo Paese fosse a conoscenza dei piani dei generali ribelli. Molti fedeli a Erdogan sono infatti convinti che i golpisti abbiano utilizzato la rete di comunicazione della Nato per coordinare i loro movimenti e sfuggire così alla sorveglianza dell’intelligence governativa.

L’Unione Europea dal canto suo ha espresso preoccupazione per la possibilità che in Turchia torni la pena capitale. Eventualità totalmente incompatibile con il processo di adesione all’Unione che lo stato turco sta portando avanti in questi anni.

La risposta del presidente turco non si è fatta attendere. Durante un’intervista alla CNN ha infatti dichiarato: “Ogni decisione spetta al Parlamento. E qualunque sia la decisione del Parlamento, io la approverò”.

Dure le reazioni dei governi europei. Quello tedesco al momento ritiene “improbabile l’apertura di nuovi capitoli nelle trattative UE-Turchia per l’adesione di Ankara”.

La presidente della Camera italiana, Laura Boldrini, ha dichiarato che “quanto sta accadendo oggi in Turchia sembra lontano dallo Stato di diritto” e che “con il pretesto del golpe militare, Erdogan sta portando avanti un disegno politico stabilito prima”.

IL NEO-OTTOMANESIMO

Questo disegno può trovare una sintesi nel concetto di “neo-ottomanesimo”: un controllo progressivo e totalizzante prima delle istituzioni e degli apparati e poi anche dei media, dell’economia e dell’accademia.

Questo il progetto che probabilmente il presidente turco aveva già in mente da quando fu eletto prima sindaco di Istanbul (1994-1998), poi Primo Ministro (2002-2003) e infine, appunto, Presidente della Repubblica nel 2014.

Con la scusa di rispettare le clausole imposte dal negoziato per l’accesso del proprio Paese nell’UE, e nello specifico la richiesta di riportare l’esercito (già responsabile di tre colpi di Stato nel 1960, 1971, 1980) sotto il controllo della politica, Erdogan, già prima dell’ultimo golpe, aveva perpetrato una prima pulizia etnica nelle forze armate e ora punta al prossimo obiettivo: trasformare la Repubblica turca da parlamentare a fortemente presidenziale.

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