Sono l’Italbasket, non risolvo i problemi


Ci aveva tenuto in vita Melli, con quel tap in allo scadere che ci aveva regalato il supplementare. Non è bastato, e ora è giustamente il momento di guardarsi in faccia e dirsi che cosa non ha funzionato. Perché saltare il terzo viaggio olimpico di fila è troppo, per una scuola cestistica come quella italiana. Per tradizione, più che altro, visto che l’interesse verso la palla a spicchi è verticalmente aumentato negli ultimi anni a fronte dei risultati deludenti degli azzurri, smentendo di fatto la teoria che vuole che le fortune degli sport che non siano il calcio dipendano dai risultati delle proprie selezioni nazionali. Ma c’è dell’altro, chiaramente.

Le formiche e la cicala

Risultati deludenti, si diceva. Vero, negli ultimi vent’anni sono cresciute numerose altre scuole: quella spagnola da ondivaga che era in passato si è fatta continua e vincente, quella lituana è esplosa nel proprio indipendentismo così come quella croata e slovena, quella greca e quella turca hanno sfruttato le ingenti risorse investite da pochi, quella francese e quella tedesca hanno innervato i giovani immigrati con quelli del territorio, e andando fuori dalla Eurozona quella argentina ha attinto e continua ad attingere alla Generazione d’Oro che si è ritrovata tra le mani. Numeri alla mano, sono calate di rendimento le grandi storiche, che dagli Sessanta agli anni Ottanta avevano costituito il fronte anti-USA, ovvero Italia, Russia e Serbia, ma mentre noi siamo rimasti a bocca asciutta, gli altri hanno saputo portarsi a casa ugualmente un paio di medaglie, malgrado abbiano perso  un filo più di noi, vista la disgregazione dei rispettivi paesi.

Ci siamo seduti sugli allori? Probabilmente sì. All’alba del 2006, Ettore Messina diceva che dalla Spagna ci vedevano come quelli che una volta sapevano fare e che poi hanno smarrito la capacità di innovazione. Gli anni gli hanno purtroppo dato ragione, e l’impoverimento del livello tecnico del nostro campionato è solo uno dei segnali, e più in generale questa mancanza di aggiornamento è un discorso che tocca sensibilmente il basket, se è vero che la federazione di volley e quella di rugby, con numeri più esigui, hanno sulla comunicazione e sulla promozione del proprio sport ci hanno investito, mentre la Federbasket sostanzialmente vive di rendita sui gloriosi anni Ottanta e Novanta della nostra pallacanestro e sul fascino che esercita sempre la sfavillante NBA. Così, mentre le formiche lavoravano, la cicala-sistema cestistico italiano ha contato sul fatto che la bella stagione sarebbe durata in eterno, raccogliendo meritatamente quanto seminato, ovvero nulla. Meglio soprassedere va, e se parlare delle ragioni tecniche per le quali l’Italia è fuori. Ci si fa meno del male.

Gli NBA? Meglio con uno solo…

Riavvolgiamo un attimo il nastro e torniamo al 2008, anno da cui abbiamo iniziato ad avere anche noi quello che invidiavamo agli altri, ovvero i giocatori NBA. Colpisce un dato: abbiamo fatto bene quando abbiamo avuto una sola punta, proveniente dalla Lega delle meraviglie, ovvero nel 2012, quando nelle qualificazioni all’Eurobasket sloveno avevamo solo Gallinari, e nel 2013, quando avevamo solo Belinelli (Datome doveva ancora mettere piede in campo). Additional Round 2009 (Bargnani e Belinelli) eliminati nel barrage, qualificazioni 2010 (Bargnani e Belinelli) terzi dietro a Israele e Montenegro e ripescati per l’allargamento del torneo a trentadue squadre, Eurobasket 2011 (Bargnani, Belinelli e Gallinari) fuori al primo turno, Eurobasket 2015 (Bargnani, Belinelli, Gallinari e Datome appena uscito) sesto posto per quella che doveva essere “la nazionale più forte” e che dichiaratamente puntava a una medaglia, fino al Preolimpico (Bargnani, Belinelli e Gallinari) perso malamente quest’anno tra le mura domestiche. In sostanza, e fatte le debite proporzioni, quando abbiamo avuto più di un NBA abbiamo mancato il bersaglio così come quando non ne abbiamo avuto nessuno (qualificazioni 2008, quando uno dei due rimasti a casa avrebbe almeno fatto comodo contro la Bulgaria di Pini Gershon…), ovviamente non tenendo da conto del risibile girone composto da Italia Svizzera e Russia delle qualificazioni 2014.

Ma possibile che il carico di colpe cada sulle spalle solo ai tre statunitensi? No, ovviamente, perché la prima responsabilità va ricercata in quello stesso sistema cestistico italiano che non ha prodotto cast di supporto all’altezza, costringendoci a naturalizzare un play piccolo e inadatto a questi livelli come Tony Maestranzi, a cavalcare oltre il consentito la generosità dei vari Mordente, Poeta, Gigli, Mancinelli, Cusin, e chi più ne ha più ne metta, che hanno sempre dimostrato cuore ma anche limiti tecnici insormontabili per quelli che sono questi livelli. L’Italia è passata dalle mani di tre tecnici pluriscudettati come Recalcati, Pianigiani e Messina senza perdere la costante: viaggia meglio quando ha una sola bocca da fuoco americana.

Non ci credete? Un flash per spiegare: Eurobasket 2011, Gallinari contro la Serbia fuori dall’arco palleggia, palleggia, palleggia e gli altri quattro giocatori fermi. Preolimpico 2016: Gallinari contro la Croazia fuori dall’arco palleggia, palleggia, palleggia e gli altri quattro giocatori fermi. Da Siauilai a Torino non è cambiato nulla, in cinque anni, e con un cambio di ct in mezzo perché vuolsi così colà dove Petrucci puote ciò che egli vuole. Quella che doveva essere la forza dell’Italia, ovvero essere piccola nei lunghi ma grossa negli esterni, alla fine è stata annullata dalle penetrazioni a testa bassa, dagli isolamenti, dalle cose fatte strane. Dan Peterson diceva nei momenti decisivi la squadra deve fare quello che sa, e Messina ne aveva raccolto l’insegnamento, ma evidentemente chi era in campo no. O magari sì, se quello che sa fare quando la palla scotta è la penetrazione uno contro cinque, o al massimo un pick&roll, ma oltre non vogliamo spingerci, per non rientrare in quella categoria di talking heads tanto eccellenti a criticare perché tanto loro in campo non ci vanno. 

Need for blood

E adesso? Beh, adesso l’Italbasket  il biglietto in tasca per la manifestazione continentale del 2017 già ce l’ha, e rispetto agli anni passati è un netto passo avanti. Ovviamente però non basta, e se si vorrà puntare alla zona medaglie che già da tempo ormai sta prendendo polvere occorre un passo avanti ulteriore. Il miglioramento, proposto umilmente dalla prima firma cestistica di Discorsivo (sì, ok, non ce ne sono molte altre in giro) previa la disponibilità di tutti, prevedrebbe l’accostamento di Belinelli e Gallinari, imbeccati da Hackett, il play più simile che abbiamo a un organizzatore di gioco, con in più facilità d’esecuzione. Affiancato a un centro di buona mano come Cervi magari si potrebbe dare un’altra chance anche ad Andrea Bargnani, sempre ovviamente che trovi una squadra, se no sarà giusto che lasci spazio a chi durante la stagione avrà giocato. Come “4”, in alternativa al giocatore romano, Pascolo o Melli. L’abbondanza di esterni, da Abass a Datome, da Gentile a Della Valle, con De Nicolao o Stefano Gentile come vice-Hackett, fino a Polonara che è un ibrido, magari potrebbe comportare l’utilizzo di quintetti piccoli nel corso delle partite, ma tenendo conto che nel finale di gara nessuna squadra rinuncia ai due lunghi. Per questo bisognerebbe allargare le convocazioni a quelli che abbiamo nel nostro campionato, come Tessitori, Pini, Baldi Rossi, Campani, o persino Magro, Biligha o Zerini, se necessario. Se sono giocatori che non risvegliano le fantasie pazienza, perché evidentemente la memoria non corre a chi come Lamma, Rombaldoni, Mian, Soragna, Garri, nelle due ultime imprese italiane (bronzo europeo 2003 e argento olimpico 2004) mise ognuno il proprio mattone senza avere il talento abbacinante da NBA, ma impegnandosi e tenendo stretti i denti quel secondo di più necessario per tagliare il traguardo.

Perché volenti o nolenti, il basket è un gioco semplice: devi mettere la palla nel canestro altrui e difendere il tuo, e risolvi i problemi e i risultati li raggiungi, sempre citando Dan Peterson, solo se sputi  sangue. È una conditio sine qua non, e chi non è pronto a sacrificarsi non ha ragione di esserci. Indipendentemente da quanto altisonante possa essere il suo cognome.

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