La fine dell’Europa comincia da Fermo


«In Nigeria Boko Haram riempie di esplosivo i bambini e li manda a fare stragi, ma tu sei un eroe e scappi in Italia. A Fermo uno ti insulta e tu lo aggredisci fisicamente, ma le prendi e muori… la tipica fine di un verme». Da qui alla fine dell’Europa il passo è breve: con queste parole Forza Nuova Vicenza – in un post poi rimosso da Facebook – ha salutato la morte di Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano di 36 anni che ha perso la vita il 7 luglio scorso a Fermo, in seguito a una colluttazione con il 39enne Amedeo Mancini.

Le dinamiche dell’alterco sono attualmente al vaglio delle autorità marchigiane, ma è certo che lo scontro è nato dagli insulti razzisti di Mancini a Namdi e la sua compagna, 24enne anche lei di origini nigeriane. In particolare Mancini – ultras della Fermana vicino all’estrema destra, sottoposto a Daspo per 4 anni – avrebbe aggredito la ragazza con insulti razzisti, chiamandola “scimmia”, per poi arrivare alle mani con Emmanuel intervenuto per difenderla.

In attesa di maggiore chiarezza sull’accaduto, l’analisi del contesto in cui si è svolto il fatto rivela che la tranquilla Fermo non è poi così tranquilla, visto il muro di omertà che ha subito circondato Mancini, soccorso in tempi record da testimoni di dubbia affidabilità. E che l’omicidio di Emmanuel è un caso tutt’altro che isolato, in una regione storicamente aperta come le Marche che negli anni della crisi economica è diventata teatro di una guerra tra ultimi che ormai troppo spesso assume i contorni dell’odio razziale.

Ma basta alzare lo sguardo per rendersi conto che il problema non è solo di Fermo o delle Marche. Il razzismo in Italia è un male diffuso e radicato nel tempo, come scrive Igiaba Scego su Internazionale. E non si può neppure pensare che si tratti di un problema che riguarda solo il nostro Paese, mentre l’incubo della fine dell’Europa si avvicina proprio a causa della risposta fallimentare al dramma delle migrazioni di massa, con litigi tra Stati, innalzamento di muri e conseguente avanzata delle forze politiche xenofobe in tutto il continente.

L’elenco, che va dalla Gran Bretagna alla Grecia, dalla Francia all’Est Europa passando per Italia, Austria, Germania e Paesi balcanici, è fin troppo lungo. Quello che diventa interessante e utile fare è capire le ragioni di questa prepotente riemersione delle destre populiste e razziste dopo decenni di maginalità. E in questa analisi ci può aiutare la Storia: se la devastante crisi economica di inizio millennio ricorda da molto vicino quella degli anni Venti del Novecento, lo stesso si può dire delle sue conseguenze.

Precarietà lavorativa e quindi esistenziale, povertà, arretramento dei diritti fondamentali. E poi incapacità delle istituzioni di affrontare la situazione, rabbia delle popolazioni, affermazione di leader carismatici e xenofobi. Nel secolo scorso questo portò al potere i fascismi in Portogallo, Italia, Germania, Grecia e Spagna, quindi alla Seconda Guerra Mondiale che avrebbe causato la fine dell’Europa ottocentesca. Un conflitto nato dalle ceneri del primo, che aveva lasciato ferite profonde nell’orgoglio e nell’economia dei Paesi vinti.

Noi non usciamo da una guerra mondiale. Ma è impossibile non accorgersi che la Storia, per tanti versi, si ripete. Con una situazione diventata insostenibile nel momento in cui, a una crisi economica ormai decennale, è andato a sommarsi un flusso migratorio inedito nella storia del continente per intensità e durata, che ha messo a nudo tutta l’inadeguatezza delle istituzioni europee e dato ampio spazio agli argomenti della destra xenofoba.

Mentre gli Stati Uniti vivono il riacutizzarsi di tensioni razziali antiche e prestano orecchio alla retorica islamlfobica di Donald Trump, in Europa la partita della Brexit si è giocata in gran parte sul tema dell’accoglienza di profughi e migranti, rifiutata dai britannici insieme alla permanenza nell’Unione. Un fatto che accomuna la democratica Inghilterra alla ben poco democratica Ungheria, dove il premier Viktor Orbán ha convocato per il 2 ottobre prossimo un referendum sul sistema delle quote stabilito dall’UE – su iniziativa tra gli altri dell’Italia – per assicurare una distribuzione uniforme dei profughi tra tutti i Paesi europei.

«Vuoi che l’Unione europea abbia il diritto di disporre il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento?». Mentre gli elettori ungheresi si pronunceranno su questo quesito, quelli austriaci dovranno ripetere il ballottaggio dello scorso 22 maggio, annullato dalla Corte costituzionale per irregolarità negli scrutini. La concomitanza del referendum ungherese con la ripetizione del voto che aveva visto prevalere di pochissimo il verde Alexander van der Bellen su Norbert Hofer – tra i giovani campioni dell’estrema destra europea – è una coincidenza inquietante, in cui qualcuno vede la possibilità concreta della fine dell’Europa.

Una storia che si ripete ma non uguale a sé stessa, se è vero che attualmente la forza principale della destra xenofoba, rispetto a quella del Novecento, è la capacità di accreditare l’egoismo elevato a sistema e persino il disprezzo per il diverso come valori perfettamente logici e condivisibili, presentando i propri leader politici come “persone per bene” che evitano pubblicamente atteggiamenti violenti, senza che per questo venga meno l’efferatezza ideologica delle origini.

A tutto questo, all’orrore del fascismo che aveva causato la fine dell’Europa come lui la conosceva, nel 1941 Altiero Spinelli rispose con il sogno di un continente unito, sintetizzato nel Manifesto di Ventotene. Il problema è che l’Europa sognata da Spinelli ancora non esiste, perché quella attuale è un’Unione economica e poco altro, dove le decisioni politiche rimangono in capo al Consiglio europeo, e quindi ai singoli Stati. Solo un’Europa ancora più forte e unita, guidata da una politica più vicina alle persone e attenta ai loro problemi, può condurci fuori dalla situazione attuale.

Siamo tornati al punto di partenza, a dover affrontare gli stessi problemi che l’Unione Europea – almeno nel sogno di Spinelli e dei federalisti – è nata per risolvere. In parte riuscendoci, visto che ci ha regalato 70 anni senza guerre. Ma ora siamo di fronte a un bivio: imboccare la strada della chiusura, tornare indietro e lasciare che la storia si ripeta del tutto, oppure scommettere su quello che abbiamo costruito, e provare a risolvere i problemi insieme? Rispondere a questa domanda diventa ogni giorno più necessario. E non ci sono posteri ai quali possiamo permetterci di lasciare l’ardua sentenza.

+ Non ci sono commenti

Aggiungi