La rivolta dei cinesi a Firenze è solo la punta dell’iceberg


Osmannoro. Capannoni bianchi incolonnati su alcune strade incrociate. Insegne cinesi, cittadini cinesi, degli italiani neanche l’ombra. Alle porte di Firenze, tra l’Ikea e il Mc Donald’s, inizia la Chinatown toscana.

La rivolta della comunità cinese a Firenze scoppiata qualche giorno fa è sintomo di uno stato febbrile cresciuto e diventato infezione senza che nessuna istituzione progettasse di affrontare il problema.

Tutto inizia, secondo le ricostruzioni, con un controllo della Asl in collaborazione con le forze dell’ordine, per verificare la sicurezza sul posto di lavoro. In uno dei capannoni vengono riscontrare delle irregolarità non gravi. A quel punto, la reazione: il titolare dell’azienda spintona il personale Asl e alcuni agenti. Coinvolto un neonato di 10 mesi, figlio del titolare. Secondo gli agenti sarebbe stato usato come scudo. La comunità cinese accusa invece le forze dell’ordine di aver percosso anziani e bambini. Poi lo scoppio della manifestazione. Tam tam su We Chat e circa 500 persone riunite, con lancio di pietre, bottiglie e lattine sulle cariche delle forze dell’ordine. Il bilancio, 7 feriti tra la comunità cinese e 2 persone arrestate per resistenza a pubblico ufficiale.

Un fatto descritto come eccezionale, perché le notizie che coinvolgono i cinesi, sono spesso omesse, evitate, ignorate. Ma c’è qualcuno che racconta questa violenza come una routine. Secondo una testimonianza raccolta da Repubblica, i controlli nei capannoni cinesi si svolgono sempre nello stesso modo. Ingresso nei locali, di ispettori e poliziotti, anche Vigili del Fuoco, con qualsiasi mezzo disponibile. Porte chiuse e intimidazioni. Chi non ha i documenti subito in questura.

Certo è che la situazione che si è creata intorno a Firenze non è di facile risoluzione. A Prato, su una popolazione di 195.000 abitanti, il 20% è cinese. Già 1300 bambini sono nati in questi anni da famiglie cinesi che abitano nella cittadina toscana. Arrivano quasi tutti dalla stessa zona, a sud della Cina, in particolare dalla città portuale di Wenzhou. Di lì è originario il 90% dei cinesi italiani. Non un caso, ma il frutto di una condizione economica e familiare che ha portato famiglie con solide basi imprenditoriali e agricoltori con bassi livelli culturali a cercare fortune al di là del mare. Dinamiche socio-economiche e culturali che hanno favorito la naturale creazione di sistemi chiusi nei luoghi di approdo degli esodi. Un approdo continuo, con una ormai oliata organizzazione delle scala sociale. Dall’ultimo al primo anello della catena si arriva con il duro lavoro, anche 24 ore al giorno. E l’integrazione, funziona solo se serve a migliorare l’inserimento economico. Così, ragazzi toscani, che studiano lingue, insegnano l’italiano a uomini cinesi d’affari.

Eppure, nessuna misura di programmazione è stata presa in considerazione. Il Governo italiano si è preoccupato solo dell’aspetto legale. Ha recentemente sperimentato l’affiancamento di poliziotti cinesi alle forze dell’ordine italiane e da Pechino arrivano agenti pronti a lavorare sul territorio. Ma per ora la sperimentazione è attiva solo a Roma e Milano, mentre Prato viene lasciata da parte, nonostante la comunità cinese sia la più numerosa su tutto il territorio nazionale.

Un problema accantonato che prima o poi si sarebbe manifestato anche fuori dalla comunità. Come è accaduto con gli scontri di tre giorni fa, ma come evidente anche da altri segnali. In questi giorni, la procura di Prato ha aperto un’inchiesta per associazione per delinquere e atti violenti per motivi razziali dopo il ritrovamento di mazze da baseball e bastoni di ferro prodotti con scarti edilizi all’interno di alcuni capannoni e della sede dell’associazione cinese “La città del cervo bianco”. L’accusa verso alcuni cittadini cinesi è di aver organizzato vere e proprie ronde contro cittadini magrebini e rom sospettati di alcuni furti. Secondo alcuni cittadini cinesi, il problema sarebbe che i furti che vengono denunciati sono snobbati dalle forze dell’ordine.

Il presidente della regione toscana Rossi e il sindaco di Firenze Nardella sono stati categorici. L’importante è affermare la legalità e i mezzi e sistemi di controllo sono assolutamente regolari. Non c’è nessun abuso insomma. Il motivo dei serrati controlli sarebbe l’evasione, stimata nella cifra di un miliardo di euro e facilitata dall’assenza di Postamat nelle aziende cinesi, e quindi dalla circolazione di denaro incontrollato. Dal 2007 al 2010 circa 5 miliardi di euro sarebbero stati trasferiti dalla Toscana alla Cina, almeno la metà provenienti da Prato. Tutto parte da una irregolarità economica, insomma. Ma il problema è complesso e per affrontarlo occorrono mezzi straordinari, questo è evidente. Come accaduto storicamente con le città nelle città, quando si crea una ghettizzazione, voluta o forzata, entrare nelle maglie di quel sistema diventa poi impossibile. Esistono regole e leggi che travalicano quelle nazionali e occuparsi di arginare le rivolte è solo la punta dell’iceberg. Se si parla di guadagni, le relazioni tra Firenze e la Cina, infatti, sono idilliache. Studenti cinesi arrivano in toscana per studiare lingua e arti, rapporti di investimento nascono con i maggiori gruppi asiatici. Il 24 maggio scorso a Palazzo Vecchio l’incontro tra l’assessore allo sviluppo economico Giovanni Bettarini e 40 tra le principali aziende e banche cinesi, per le quali Firenze è oggetto di interessato investimento. Settore manifatturiero, finanziario, dell’energia e del commercio on-line. Questi gli ambiti più coinvolti nella collaborazione.

La doppia faccia di un rapporto che potrebbe facilmente ribaltarsi da risorsa a serio problema.

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