Guida alle Finals NBA


Where amazing happens”, dove accadono le meraviglie. È lo slogan della NBA, la Mecca della pallacanestro mondiale, a cui molti occhi sono rivolti, in questo periodo dell’anno. Succede, specie nei periodi in cui la palla a spicchi torna ciclicamente a essere uno sport di massa, come è questo appunto il caso. Dopo i disastri degli anni ’70, dove la Lega veniva vista come un covo di primedonne esibizioniste e tossicodipendenti, il lavoro dell’ormai ex commissioner David Stern è stato improbo. Cavalcando nell’ordine il dualismo Magic – Bird, la stella solitaria e ferocemente affamata di Jordan, il rapporto dei frenemies Shaq – Kobe e infine il LeBron James prototipo del nuovo atleta che è prima un’industria e poi un atleta, la NBA è riuscita col tempo a costruire una fama consolidata di Paese delle Meraviglie, appunto, che viene spesso additato a modello di riferimenti da rappresentanti e opinionisti di altri sport. Tanto che, ha azzardato qualcuno, potrebbe essere persino considerata l’icona globale dello sport, tanto è in grado di trascendere i confini e i continenti, e in effetti il giro di affari (perché sempre lì si va a parare, of course) giustifica ampiamente questa idea.

Dunque, gli occhi rivolti quest’anno assisteranno a uno spettacolo già andato in scena nella passata edizione. Trattasi dell’incontro, nel’atto conclusivo, tra Cleveland Cavaliers e Golden State Warriors, franchigie guidate entrambe da due figli della città di Akron, Ohio: il già citato LeBron James e Stephen Curry. L’anno scorso ebbe  la meglio quest’ultimo, ma il Prescelto quest’anno dalla sua parte avrà un supporting cast di valore che, purtroppo, l’anno scorso i Cavs non poterono utilizzare causa infortuni. Ora come ora la lotta sembrerebbe invece ad armi pari, e questo è di certo questo è un vantaggio per la NBA stessa, oltre che per chi parte sfavorito (Cleveland, nella fattispecie).

Fatta questa papirica premessa, andiamo a immergerci nello specifico della tenzone (e della tensione, sospettiamo).

 

Kiss: Keep It Simple, Steph

Golden State è, se vogliamo, la bestia più facile da analizzare. Steve Kerr, che nei Bulls giocava sotto Phil Jackson in un sistema molto libero come l’attacco a Tre Post (il Triangolo, quello che per fortuna è considerato), ha a sua volta implementato un sistema flessibile per i suoi Warriors, una volta divenuto capoallenatore.

Curry è il fulcro, e giustamente: il suo range di tiro infinito e infinitesimale, la sua conclusione morbida, la leadership silenziosa, si traduce in campo nella capacità di essere decisivo nei momenti che contano, proprio per la varietà di soluzioni: il ragazzo, che ha faccia da infante da killer instinct degno del miglior cecchino, punisce sistematicamente i mismatch che si creano sui pick&roll se la squadra avversaria decide di cambiare, e se per caso su di lui provano a portare un raddoppio semplicemente trova il pertugio giusto per scaricare al compagno libero.

Non solo solo Steph, però: fondamentali sono anche i tiratori Klay Thomson e Draymond Green, che sanno concludere da fuori o in penetrazione, con in più quest’ultimo che talvolta funge da play aggiunto, congelando la palla per l’uscita dai blocchi di Curry, ed Ezeli, un lungo verticale che, dopo avere preso posizione spalle a canestro, ha rapidità e forza tali nei movimenti per concludere direttamente. Nel complesso, come si diceva, il sistema offensivo dei Warriors è flessibile, costruito per accentuare la tecnica dei singoli, e da qui nasce l’abbondanza di backdoor e dinamismo dei lunghi, che quando recuperano il rimbalzo offensivo e non hanno spazio per una conclusione semplicemente scaricano fuori (sembrerà banale, ma nel basket moderno la palla sotto canestro arriva talmente poco che la tentazione del tiro forzato è difficile da combattere…).

In difesa le regole sono altrettanto semplici: si occupa con un uomo in più l’area preferendo battezzare il tiratore dall’angolo, si raddoppia l’incursore di turno attorno alla zona dello smile, si resta sull’uomo quando gli avversari giocano il pick&roll e in generale la copertura del proprio uomo deve creare un ostacolo, più che asfissiare. Quanto all’uomo più pericoloso, spesso viene affidato alle cure di Andre Iguodala, giocatore che chi scrive adora sin dai tempi dei Sixers, per la generosità e per il suo essere decisivo da ambo i lati del campo. L’MVP delle Finals del 2015 fu anche un premio alla carriera.

 

King James alla prova del…sette

Non si può iniziare una disamina sui Cavaliers senza partire da LeBron James. Il Prescelto, il Closer, King James: lo hanno chiamato in tanti modi, ha fallito e ha trionfato, ha conquistato la settima finale NBA della sua carriera con l’intento di vincere il terzo anello, ha tradito Cleveland per togliersi di dosso l’etichetta di perdente ed è tornato per portare la squadra della sua terra là dove non è mai stata, “on the top the world”, ha ripreso dove ha iniziato, influenzando (eufemismo) strategie societarie e di campo, fino a ottenere la rimozione di David Blatt da head coach e la promozione di Tyron Lue, il secondo con migliore reputazione (ciò l’asso di briscola per farsi ascoltare dai giocatori NBA) rispetto al primo, paradossalmente perché Lue è alla prima esperienza assoluta sulla tolda di comando.

Già, la prima assoluta, e finora non sembra essersela cavata malissimo. Due cappotti consecutivi confezionati a Pistons e Hawks, due sconfitte contro Toronto ma serie comunque portata a casa, e ora le Finals. Risultati ottenuti anzitutto cementando nella propria metà campo: una copertura sull’avversario che diventa pressione fisica solo nel verniciato, nella zona più pericolosa, il pick&roll su cui si cambia se sono laterali o si raddoppia il portatore se sono centarli, il tiratore nell’angolo che viene monitorato ma sfidato solo quando diventa pericoloso sul serio, penetratori che trovano due uomini in area e due uomini e mezzo in post basso, a favore di un avversario magari lasciato libero fuori, anche se contro i Warriors una tattica simile controproducente si rivelerebbe e dunque urgeranno modifiche.

In attacco, poi, Lue ha deciso di sfruttare tutte le mani buone a sua disposizione. I lunghi partono larghi non stazionando in area (che farebbe il gioco della retroguardia), vanno a rimbalzo offensivo e se lo catturano uno dei due si apre e l’altro si posiziona all’altezza del gomito. Il blocco-e-giro tra guardie (Irving/Smith) crea mismatch favorevoli, il contropiede primario (cioè che punta direttamente al canestro) porta la palla tiratore che arrivando come rimorchio si è posizionato meglio, Kevin Love spalle a canestro ha tecnica per 1) concludere lui stesso con il giro dorsale, 2) scaricare al penetratore e 3) riaprire fuori dall’arco dei tre punti, distanza che lui stesso non disdegna. E tutto questo senza tenere conto di LeBron, che essendo mezzo esterno (per gioco) e mezzo lungo (per fisico) può permettersi di scegliere ogni volta l’opzione che ritiene più consona, sia essa la penetrazione partendo dall’ala, il pick&roll con Irving, il taglio lungo la linea di fondo, o il contropiede primario, magari dopo avere raddoppiato.

 

Insomma, gli stimoli per dire che saranno delle Finals interessanti, avvincenti e ricche di spunti ci sono tutti, dai protagonisti alle tattiche. Ora non resta che sedersi sul divano e godersi lo show, che l’organizzazione NBA gestirà magistralmente e programmerà minuziosamente come al solito. D’altra parte, non si acquisisce la nome di miglior campionato del mondo trascurando i dettagli, no?

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