Apple vs FBI: la linea sottile tra sicurezza e privacy


Due diritti fondamentali in conflitto tra loro. Il potere economico contro quello politico, i colossi della tecnologia contro il governo più potente del mondo. Lo scontro Apple vs FBI è molto di più che una semplice dimostrazione di forza: è un precedente che potrebbe determinare il rapporto tra comunicazione personale e attività investigativa per gli anni a venire.

Che succede oltre oceano? Semplice, almeno nelle premesse: il celeberrimo Federal Bureau of Investigation – la polizia federale Usa per gli affari interni – chiede a Apple di sbloccare l’iPhone di Syed Rizwan Farook, che insieme alla moglie uccise 14 persone lo scorso 2 dicembre a San Bernardino, California.

Lo smartphone della compagnia fondata da Steve Jobs, infatti, è dotato di un codice di blocco in grado di renderlo inutilizzabile dopo dieci tentativi di accesso falliti. Per questa ragione, il Bureau ha chiesto a Apple il supporto tecnico necessario ad aggirare questa protezione e rendere di fatto accessibili i dati.

Dall’amministratore delegato Tim Cook, tuttavia, è arrivato un secco rifiuto: in una lettera aperta del 16 febbraio scorso, Cook ha spiegato che le nuove misure di sicurezza elaborate dall’azienda di Cupertino non si possono bypassare una tantum.

Sarebbe necessario, viceversa, elaborare un contro-programma in grado sostanzialmente di hackerare il sistema operativo dello smartphone, rendendo di fatto vulnerabili tutti gli iPhone del mondo al suo uso (e abuso) da parte di qualunque governo o altra organizzazione più o meno legittima.

Una cosa che, scrive Cook, allo stato attuale Apple non può né vuole fare, perché andrebbe a minare profondamente la tutela della privacy dei suoi clienti. Supportata in questa battaglia dai nomi più pesanti della tecnologia digitale – Google, Microsoft, Facebook, Twitter e tanti altri, oltre che dalle Nazioni Unite – la casa di Cupertino ha registrato il suo successo più importante lo scorso 29 febbraio, quando il giudice James Orenstein del Distretto Est di New York si è pronunciato in favore della compagnia.

Il direttore dell’FBI James Comey, in udienza di fronte alla Commissione Giustizia del Congresso, ha ammesso che l’FBI si trova a dover richiedere l’aiuto di Apple per un proprio errore tecnico in fase d’indagine. Nel frattempo, un opinionista d’eccezione come Edward Snowden ha spiegato che al Bureau non serve il supporto dell’azienda di Cupertino per sbloccare l’iPhone di Farook.

Nonostante questo, l’FBI ha deciso di presentare ricorso alla decisione del giudice Orenstein, argomentando che Apple ha sovrastimato la richiesta dei federali, orientata ad ottenere lo sblocco di un singolo dispositivo come già avvenuto in passato in circostanze simili, non un software per l’accesso totale.

Se è vero che le procedure indicate da Snowden sono ad alto rischio, si capisce la ragione che spinge il Bureau a insistere sulle vie giudiziarie. Resta da capire quale delle due parti abbia ragione dal punto di vista tecnico: Apple che sostiene l’impossibilità di sbloccare singoli dispositivi, se di nuova generazione, oppure i federali, che continuano a ritenere possibile un accesso ad hoc.

Ma al di là del caso legato a San Bernardino, dietro a questa disputa c’è molto di più. In una partita cominciata all’indomani dell’11 settembre 2001 con il Patriot Act, proseguita con lo scandalo NSA/Wikileaks e le intercettazioni del governo Usa ai leader politici di tutto il mondo, in palio c’è un potere incommensurabile sulla nostra vita di tutti i giorni.

Da un lato ci sono le multinazionali della comunicazione digitale, il cui business è fondato sui dati personali dei clienti in una dimensione ancora ignorata da larga parte della popolazione. Dati che, proprio per questo motivo, sono difesi con misure tecniche e battaglie comunicative più o meno di facciata a tutela della privacy.

Dall’altro lato ci sono invece i governi, di volta in volta intenzionati a portare a termine un’indagine per le più nobili ragioni di giustizia, oppure a spiare i propri cittadini o quelli di altri Paesi con strumenti come i trojan di Stato – programmi d’intrusione prodotti da software house come la milanese Hacking Team – per ragioni di sicurezza o repressione del dissenso, come accade in Russia e Turchia.

È quindi evidente che in una questione di simile complessità, resa ancor più intricata dalla continua evoluzione delle tecnologie, sia praticamente impossibile dare completamente ragione a una delle due parti. L’unica possibilità è valutare caso per caso e tenere gli occhi bene aperti: perché gli smartphone che usiamo ogni giorno sono ormai terreno di scontro per una battaglia all’ultimo dato.

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