Isiah Thomas, the wolf of Chicago


Ci sono mille aneddoti che riguardano la vita e le opere di Isiah Thomas da Chicago, Illinois. Come tutte le figure antieroiche, spesso la verità si confonde con la leggenda, e la storia, che ricordiamolo è sempre scritta dai vincitori, finisce per annacquare i confini dell’una e dell’altra rendendole parte di un unico continuum narrativo. Chi può dire, ad esempio, se la voce che gira sulla sua esclusione dal Dream Team del 1992 è vera? Ovvero che Jordan avrebbe manovrato tutto perché all’All – Star Game del 1985 Thomas ne aveva ignorato, e anzi boicottato, il talento crescente. O se magari, stando a quanto raccontato dal duo Magic Johnson – Larry Bird nel loro libro Quando il basket eravamo noi , fu semplicemente perché alcune sue uscite particolarmente infelici avevano reso, lui e la sua squadra, invisi a una buona metà della Lega.

Quale che sia il reale corso degli eventi, una cosa è certa: al giorno d’oggi, nominare Isiah Thomas equivale ad accendere, nel cervello di chi segue le vicende NBA, una lampadina negativa. Forse anche più d’una, a dire il vero.  Ma, dopo i disastri combinati in più ruoli, è difficile che aspettarsi un esito differente.

 

Da Chicago con furore

Per raccontare bene questa storia occorre partire dall’inizio, però. Più precisamente, come si diceva nella prima riga, da quella che viene ribattezzata la “Second City”, in netta contrapposizione a New York. Nella mente degli americani, la Grande Mela è il “verso” imprenditoriale, orgoglioso, competitivo ma onesto, mentre Chicago è il “retro” oscuro, dove hanno proliferato la mafia e l’illegalità. Che non sia così (o non solo, comunque) ma che entrambe abbiano lati positivi e negativi è assodato, ma alle volte i luoghi comuni sono tanto antipatici quanto difficili da togliere, e ogni caso che li conferma viene evidenziato, mentre quelli che li smentiscono vengono ignorati.

Thomas, ma non è una novità nel mondo dello sport americano, viene da una situazione, da un ambiente, difficile. Gli housing project sono la quotidianità, la povertà è una piaga frequente nelle storie dei giocatori a stelle e strisce, e compagna fedele, ancorché sgradita. Molti prendono la via dell’illegalità un modo per sfuggirvi, altri invece vedono nello sport professionistico la strada verso un futuro più roseo. E Chicago, da questo punto di vista, non ha mai deluso: dal suo grembo sono usciti campioni quali Kevin Garnett, Dwyane Wade, Tim Hardaway, Mark Aguirre, Doc Rivers, Quentin Richardson, Antoine Walker, Terry Cummings, JJ e Nick Anderson. E Isiah Thomas, forse il migliore di tutti. Ciò che rimane nei suoi occhi sono le finte rapidissime, semi – impossibili da (pre)vedere e letali, grazie alla mano educata dall’infinito numero partite ai playground. Non è da trascurare però la prodigiosa visione di gioco, grazie alla quale vedeva passaggi immaginifici per i compagni  accorrenti, anche se in mezzo c’erano maglie avversarie, meglio ancora se quelle maglie erano quelle biancoverdi dei Celtics di Bird o dei Bulls di Jordan, che verso la fine degli anni ’80,  erano le avversarie dei Detroit Pistons che lo scelsero, rispettivamente quella dal glorioso passato e quella dal luminoso futuro. Tra queste due dinastie che hanno fatto storia in positivo, ci sono Thomas e i ragazzacci da Mo’town, che invece vengono ricordati con accezione negativa. Anche se prima dell’NBA, prima di Detroit, prima dei Bad Boys, non va scordato che ci fu l’esperienza a Indiana University, sotto la guida di Bob Knight, coach burbero e viscerale ma che il suo materiale professionistico negli anni ha saputo via via accumularlo (oltre a Thomas, Randy Wittman e Quinn Buckner).

“Bad boys, bad boys”

Racconta Magic Johnson che mentre i Celtics ti colpivano una volta, i Pistons di Thomas ti colpivano due, una anche a gioco fermo per essere sicuri che avessi capito il messaggio. Per questo ancora oggi entrano nella storia NBA dalla porta sul retro: perché fu a causa del loro gioco fisico e ultraintimidatorio che la Lega prese una svolta a favore di regole e sanzioni più rigide contro chi trasformava il gioco tremendista in violenza gratuita: sulla forma mentis che ci ha accompagnato fino ai giorni nostri, sui falli “flagrant 1” e “flagrant 2” virtualmente ci sono i nomi di Bill Laimbeer e Rick Mahorn scritti a caratteri cubitali. E con luci al neon accese, per essere sicuri di vederle.

Non bastasse questo, Thomas si è alienato molte simpatie a causa del suo carattere difficile. I commenti che fece su Bird alla fine delle finali di Eastern Conference del 1987, quelli secondo cui Larry Legend era sopravvalutato in quanto bianco e che se fosse stato nero sarebbe stato considerato solo uno dei tanti, sono la punta dell’iceberg di un atteggiamento rancoroso, da “io contro il mondo”, che lo ha allontanato da molti dei giocatori dell’epoca. Durante la famosa selezione del Dream Team, a non volerlo non era solo His Airness: Malone non lo sopportava, con Magic i rapporti inizialmente confidenziali erano diventati col tempo glaciali, e agli altri (tranne forse Laettner che doveva ancora uscire dal college) stava cordialmente sulle scatole. I protagonisti della più grande squadra della storia (dello sport) sono concordi nel considerare Isiah uno che nel Dream Team poteva starci benissimo come talento ma mai e poi mai nello spogliatoio. Perché, come dice il saggio, una squadra non ottiene i risultati con la somma del talento ma con l’unione di intenti e delle anime, dato che i giocatori sono prima di tutto uomini.

Il basket dopo il basket

Dopo il ritiro Thomas ha continuato a lavorare nello sport a cui aveva dato tanto, come abbiamo visto anche involontariamente. Lo ha fatto alla sua maniera: recando danni, tra l’altro in un luogo di poca esposizione mediatica e di risibile tradizione cestistica come New York. Certo, prima c’è stato il lavoro ad Indiana, dove rilevò un dimissionario Larry Bird (alle volte il caso…) e condusse la squadra a un record di 136 gare vinte e 125 perse, numeri comprensivi di regular season e playoff. È stato ai Knicks che però ha dato il peggio di sé. Nella Grande Mela Isiah ci era arrivato quando James Dolan, proprietario di quel cubo di Rubik perenne che sono sempre stati e sono tuttora i blu – arancio, aveva chiesto a Magic Johnson di aiutarlo nell’amministrazione della squadra, e Magic, essendo impegnato su altri fronti, aveva indicato in Thomas una persona competente. Che abbia toppato lui o che sia impazzito l’ex amico non è dato sapere, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Giocatori scarsi pagati con contratti da capogiro (Eddy Curry, Quentin Richardson, Al Harrington, Eddie House, Jamal Crawford), una squadra di teste calde affidata a un sergente di ferro come Larry Brown, per poi  decidere di togliere il giochino al suo povero allenatore (che quando ai Pistons aveva un altro bel matto come Rasheed Wallace lo aveva non a caso sedato col trio Billups – Prince – Hamilton) e prenderlo in mano lui stesso nel doppio ruolo di general manager e coach, con risultati ancora peggiori del predecessore e l’intero Madison Square Garden a gridare all’unisono un sonoro “Fire Isiah!”. L’ultima parentesi l’ha visto seduto sulla panchina dell’università di Florida State, ancora con record negativo.

Thomas è, dunque, una figura obiettivamente al di là del bene e del male. Uno che ha perso una causa per molestie sessuali ma che da anni si impegna in numerose attività filantropiche, che vanno dagli ospedali per bambini  alle comunità di afroamericani, fino quelle che si occupano di aiutare le famiglie svantaggiate e le aree più deboli della sua città natale. Uno al settimo posto nella classifica degli assist – man di tutti i tempi ma al sesto in quella delle palle perse. “Un cavaliere oscuro” avrebbe commentato il Jim Gordon di Christopher Nolan, e non è un paragone casuale perché Gotham City è sempre stata la versione idealizzata di Chicago. E Isiah Thomas ne è l’incarnazione, se ce n’è una: capace di fare qualunque cosa. In positivo o in negativo.

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