L’invenzione di fare storytelling


Come d’incanto, si sarà accorto chi vive sulla rete, sempre più aziende hanno iniziato a parlare e fare storytelling. Lo recitano come un mantra buddista: marketing storytelling, corporate storytelling, brand storytelling e così via verso altre forme arcuate.

Per precisare, lo storytelling è uno di quei concetti-contenitore che tutto assorbe e nulla definisce. Sì, mio buon lettore, è

Il Futurismo (F. Depero) in pubblicità II

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“l’arte di raccontare storie”! E no, non è nulla di scientifico o innovativo: c’è da sempre, ma come moltissime “pratiche” che hanno secoli di vita, appena il mondo del business vi posa gli occhi sopra, ecco che ESPLODE la novità!

Il Futurismo in pubblicità I

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In fondo ne parlava bene un signore di qualche anno fa. Francis Bacon parlava di “idoli“, false nozioni o espedienti retorici che fanno sembrare un ragionamento fallace una verità oggettiva. Nel nostro caso siamo ne l’ “idolo del foro”: è la violenza che l’uomo fa sul significato, torcendolo con l’uso di parole diverse, complesse, per dare parvenza di novità; novità non solo nel termine, ma nel concetto stesso!
E’ così che mi pare faccia a volte il mondo imprenditoriale, soprattutto quello del web. Siamo passati dall’epoca del dibattito tra la necessità di fare pubblicità “descrittive” oppure “estetiche”, come dice J.M. Floch; siamo passati dai futuristi e artisti come pubblicitari; siamo passati poi dalla forza espressiva di scrittori e poeti di fama per commercializzare prodotti. Oggi è la volta dello storytelling.

Esiste da tempi immemori lo storytelling politico, quello delle fiabe alla Bush di “Ashley’s story”, la forza di un sogno da “We shall fight”, passando per “I have a dream”, dritti fino a “Yes we can!”, tralasciando altri esempi politici di casa nostra.
Nessuno dica che in politica, o in guerra non vincono le storie, le narrazioni emotive ed imprese epiche scodellate nel giusto tono e nei giusti mezzi.

E non importa se vengono chiamate “brand storytelling” le iniziative che provano a creare McDonald’s o Barbie, quegli abbracci che si sforzano di dare  con la loro comunicazione: la storia non cambia, il concetto rimane tale, dell’essere umano che si appassiona alle storie in quanto siamo creatura sociale che vive di sogni, speranze che vadano oltre il materiale, oltre un semplice panino o bambola. Vuole luoghi VERI dove giocare con Barbie, vuole principi etici NUOVI nei menu, vuole un FINTO mondo intercambiabile e senza limiti.

Accanto a certi “idoli” appaiono i loro guru: è’ il principio per cui si fanno corsi per la scrittura creativa sul web, è il business dei workshop in “corporate storytelling”, è il mito del master in “Visual merchandiser”: come ho spiegato a Age UK shop a Norwich, dove ho prestato servigi come volontario factotum, la vetrina, gli scaffali, il posizionamento degli oggetti, è fare storytelling, raccontano storie, o almeno dovrebbero. Di più: le persone che riconoscono forme, oggetti, colori o composizioni che rimandino a contesti e scenari, vengono letti con gli occhi dell’empatia, delle esperienze passate. E quanto più una vetrina, o scaffale che sia, rimanda a significati “contestualizzabili”, tanto più l’immedesimazione o un contatto sensibile con la scena e col prodotto sarà probabile.

Dopotutto è questa la nuova pseudo-frontiera, quella dell’antica massmediologia, dei miti, degli eroi da amare e in cui credere. Per l’eternità.

Nuova frontiera o meno, idoli o no, lo storytelling fa parte di quella comunicazione che è sempre stata una lotta impari: in un angolo chi sa usare le parole, chi crea paradisi con il linguaggio unito al giusto mezzo; all’angolo opposto c’è chi è sguarnito e che, vuoi per cosciente abbandono cognitivo (“Ma sì dai. Dopotutto McDonald si sforza di migliorare, mi fido. Sono cambiati, è giusto dargli fiducia.”) o per ingenuità, è rapito in un loop gratificante. E la sensazione dev’essere bella.

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