I Ministri – intervista


Al futuro non ci crediamo più da un po’. Quindi cerchiamo un passato migliore, che sarebbe il nostro presente. Un modo per guardarci dietro tra un po’ di tempo ed esserne fieri” (I Ministri intervistati ad Occupy Deejay, il 12 marzo 2013)
ministri intervistaIn questa frase è condensato il significato del titolo del nuovo disco dei Ministri, “Per un passato migliore” (Godzillamarket/Warner, 2013), e anche dei suoi contenuti, e delle sue intenzioni.
Concepito dal trio milanese tra “una pizzeria egiziana, un bar cinese e un ferramenta italiano – in un quartiere all’ombra della Stazione Centrale, grigio e sfiduciato come ormai metà del Paese“, per stessa ammissione della band il disco segna il ritorno a una certa genuinità originaria, all’essenzialità dell’assetto basso-chitarra-batteria. E come sempre, gridati al punto giusto, ci sono i contenuti, più o meno esplicitati, più o meno nascosti. Di questi, della lavorazione del disco, del percorso musicale dei Ministri e del fatto che chi chiude una radio si debba vergognare ho avuto occasione di parlare con Federico Dragogna, autore dei testi e chitarrista della band.

 

La prima questione riguarda la lavorazione del disco “Per un passato migliore”. Quando siete entrati in sala di registrazione avevate le idee chiare, o le cose sono maturate strada facendo?

Il disco era già fatto e finito prima di entrare in studio. Lo avevamo già pronto in sala prove fino all’ultimo stacco di batteria, perché per come volevamo registrarlo – in presa diretta, suonando tutti – era impossibile fare altrimenti. Era una manovra decisa da tempo.
A questo proposito, tra un mese circa pubblicheremo i provini originali del disco, utili per capire cosa sia cambiato dalla sala prove alla sala d’incisione. E per alcuni pezzi non è cambiato assolutamente niente.

Questo ha velocizzato il lavoro in studio?

Sì, il lavoro iniziale è stato più veloce. Noi tre abbiamo suonato ogni pezzo circa quattro volte; poi per ogni pezzo abbiamo preso una singola esecuzione. Per qualche brano è capitato che tenessimo il finale di un’esecuzione, con la restante parte del pezzo di un’altra. Questo è stato il lavoro iniziale.
Poi si sono inserite le voci, e c’è stata l’opera di rifinitura, attenzione, equilibrio. Però la grande base era venuta fuori subito.
Il problema è stato cercare di assomigliare ai provini che avevamo sentito per mesi, dotati di quella magia cui ormai eravamo abituati. Cercare di riavvicinarsi è un processo molto più lungo, a volte riuscito, a volte no. A tal punto che per qualche brano la voce è quella originale del provino.

Parlando della lavorazione del nuovo disco, in più occasioni avete affermato che il metodo di lavoro adottato è stato per voi un ritorno alle origini, un recupero dei primi passi. Da dove nasce la necessità di questo recupero del modus operandi originario?

Principalmente, il bisogno è nato dal fatto che ci siamo accorti che nell’album precedente (Fuori, ndr) il materiale che avevo portato per il disco era condizionato da suggestioni diverse; intendo, un paio di tastiere o qualche beat. Per il pubblico rock è difficile accettare l’inserimento dell’elettronica, termine talmente generale che sembra sottintendere la presenza di un robot, quando invece usavamo tastiere degli anni ’70, probabilmente più datate rispetto ai nostri amplificatori.

Gradualmente, con grande naturalezza e spontaneità, durante il tour di “Fuori” abbiamo fatto virare, riarrangiandoli, i pezzi del disco in chiave sempre più rock, al punto che siamo arrivati a non avere più una tastiera sul palco. Così ci siamo ripromessi di lavorare al disco successivo direttamente in questo modo, invece di arrivarci dopo un tour intero. Una decisione presa da noi, tutti e tre insieme, guardandoci e vedendo ciò che siamo, al di là delle suggestioni e di quello che vorremmo essere.

Per un passato migliore” è ricco di contenuti, al punto che se ne potrebbe parlare per ore. Cerco quindi di concentrarmi su un paio di canzoni, quelle che mi hanno colpito di più. Ti chiedo di spendere qualche parola, liberamente, su “Mammut” e “La pista anarchica“.

Il titolo “Mammut” è nato in una località che si chiama Mammut Lake, dove ho trascorso un periodo di ritiro molto particolare; qui è nata l’essenza della parola mammut, la ripetizione. Diverso è ciò di cui parla la canzone, ma per svilupparlo mi serviva un logo, un brand – poi ho scoperto che esiste veramente la marca Mammut –. Avevo bisogno della ripetizione di qualcosa di ancestrale, esattamente come la pubblicità usa fare.
Nella mia testa ho immaginato due bambini, in un mondo in cui viene pubblicizzato un prodotto che si chiama appunto “Mammut”; entrambi vogliono quella stessa cosa: uno dei due bambini la ottiene, l’altro no. Conseguentemente, ho immaginato il dipanarsi dei pensieri dei bambini che prendono due strade diverse. Più concretamente, può raccontare la storia di un ragazzo di noi che negli anni ’90 decideva di fare il no logo, e di un altro che andava a mangiare da McDonald’s, vivendo in realtà nello stesso mondo, uno affianco all’altro, e per molti aspetti portando dentro le stesse idee.

In conclusione, non si tratta di un saggio sulla società della comunicazione: è solo una canzone. Però non c’è nulla di scelto a caso. Mi interessava che “Mammut” fosse ipnotica per l’ascolto, e un po’ oscura nel significato, in modo tale che si generasse la stessa attrazione che c’è nei personaggi nella canzone. Quella sensazione per cui, alla fine dei concerti, le persone mi dicono: «bellissima Mammut, ma di cosa parla?» Quello stesso sentimento che genera la pubblicità: lo voglio, ma non so cos’è.

“La pista anarchica” è molto diversa. Il testo prende varie vie, ma nella sostanza parla del cercare di fare le cose in modo diverso. Un modo che non è previsto, né raccontato da qualcuno. E soprattutto, di farle concretamente, senza illudersi di avere una vita civile e d’azione semplicemente rimanendo su internet. Ci sono svariati riferimenti ai mezzi d’informazione e al loro ruolo in questo senso. Quindi, quando si parla delle raccolte firme senza inchiostro (“quando hai firmato l’appello per non dimenticare / ti sei scordato l’inchiostro perché tornavi dal mare”, La pista anarchica, ndr) si intende questo: non basta firmare sul web, o aderire a una campagna al giorno per simulare una vita reale di impegno, di azione. Lo stesso vale per un’altra frase di cui molti mi chiedono il significato: “hai mai visto un leone passare la sua vita / a guardare i documentari sui leoni?”. Stiamo cominciando a passare le vite guardando le vite degli altri, che è abbastanza delirante. I social network sono davvero documentari sugli uomini, ormai. Ed è molto buffo.

I temi di cui parliamo nei testi li affrontiamo nella forma del dubbio, della discussione, della paranoia, del viaggio. Non nella forma del comunicato stampa, o della propaganda, come se detenessimo la verità, o come un certo tipo di musica politichese degli anni ’90, un po’ bidimensionale.

Personalmente, ho assistito ad alcuni vostri concerti in apertura di grandi band internazionali, qualche anno fa. Poi vi ho un po’ persi di vista – mea culpa – e vi ho ritrovati in grande forma un paio di mesi fa in un Estragon pieno, reduci da quattro o cinque sold out, uno dietro l’altro. Come state vivendo questo momento, che oserei definire di successo?

Sta andando benissimo.
Però la nostra è una modalità di vita per cui si azzera continuamente la percezione che si ha della situazione circostante: è come ricominciare sempre dal primo livello di Super Mario. Le prime settimane del tour, coi concerti tutti esauriti, sono state bellissime, ma non prendono possesso della mia mente. Ora riesco a pensare solo alla settimana in corso, i prossimi concerti, le cose da fare, le idee da farsi venire.
Abbiamo constatato che non è neppure conveniente avere un’idea di successo, perché è incredibilmente corta la memoria sia nostra, che delle persone, anche a causa dei mezzi d’informazione odierni.
Certo, ci sono risultati che ci fanno essere molto contenti come gruppo, ma ogni volta e come sempre si ricomincia da capo: palla al centro di nuovo.

Nel comunicato stampa che accompagna e presenta “Per un passato migliore”, si legge: «Non ci sono stati dischi o ascolti comuni ma i riferimenti più frequenti durante le discussioni sono stati i primi Foo Fighters, Dinosaur Jr., Smashing Pumpkins, Rage Against The Machine, Nirvana e Oasis. “In breve e più semplicemente, i nostri anni novanta – e la forma che il rock aveva al tempo, quello che ci fece innamorare e rischiare le nostre vite. […]”». A questo proposito, ti chiedo se per “rischiare la nostre vite” intendeste il fare musica.

Sì, il rischiare la vita è stato fare musica.
Visto a posteriori, ora è tutto più semplice, ma “rischiare la vita” significa che mentre si stanno facendo concerti nei mini-pub, quando non sta ancora succedendo niente, né si stanno facendo soldi nella musica, si decide di mollare tutto il resto e concentrarsi solo su quello, credendo di riuscire a farcela, quando nessun dato che si ha attorno può confermarlo o provarlo. È un incitarsi a vicenda: in quel momento rischi la vita, o almeno ne rischi un bel po’. Ovviamente dipende anche da che situazione familiare si ha, il che rende le cose più o meno facili, o difficili.
E anche quando la situazione è partita, significa rimanere per 2 o 3 anni nell’incertezza, o banalmente senza soldi.

Ancora oggi fare musica è “rischiare la vita”, per chi comincia. Però se si hanno le idee chiare, si riesce a costruire un patrimonio che nessuno può toglierti. Inizialmente sembra una scommessa pazzesca; poi ritrovi coloro che ti scoraggiavano a intraprendere questa strada col contratto rinnovato ogni 6 mesi, di una professione che fino a qualche anno fa sembrava sicura e dignitosa. Nella generale insicurezza, noi eravamo già abituati all’insicurezza: questo è il vantaggio.

Tra i vostri inediti c’è “Chi chiude una radio si deve vergonare“, pezzo scritto in occasione della chiusura di RockFM. Come mai tenevi tanto a quella radio?

RockFM era la radio rock di Milano: ci ha fatto conoscere un sacco di cose, ed era uno dei punti di partenza e confronto su quelle stesse cose. Fu chiusa in un momento in cui poteva essere tenuta in vita: questa fu la cosa più triste.
Eravamo nel periodo delle instant song: succedeva qualcosa, scrivevamo un pezzo. Era divertente.
In quella occasione, ci hanno chiamato per sostenere e dare l’addio alla radio, e noi in tre giorni abbiamo buttato giù il pezzo e lo abbiamo portato lì, ed eseguito.

 

 

ministri intervistaI Ministri saliranno sul palco della Rocca Malatestiana di Cesena sabato 8 giugno come protagnisti del secondo appuntamento di acieloaperto, la nuova rassegna musicale estiva voluta dall’associazione culturale Retropop live, in collaborazione con Monogawa Back to Gawa e Vigna di Porta Santi. Collabora a questa data anche il Vidia Club di San Vittore di Cesena.
In apertura di concerto, la band indie-rock tutta cesenate The Tocsins.

Tutte le informazioni sull’evento e sulla zona espositiva collaterale all’area concerto sono reperibili qui: 8 giugno / I Ministri.

Ci vediamo sabato, ondeggiando ai piedi del palco.

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