Interviste improbabili: Jack London


Allora sig. London, direi che con lei non servono le presentazioni, tra 4 anni sarà un secolo che ci ha lasciato, devo chiedervelo: come va con John Barleycorn? (l’alcohol ndr)

Prima di tutto diamoci del tu, non mi sono mai piaciuti i damerini e poi, chiamami Jack. Per tornare al punto, devo dire che non è più quello di una volta: ai miei tempi, nella baia di San Francisco,  quando distillavamo liquore nelle stive delle navi ostricare, oppure giù a Oakland in qualche vasca nella cantina della zia, era  diverso: si beveva per sentirsi uomini, per dimostrare qualcosa, qualcosa di stupido forse, ma pur sempre qualcosa. Oggi le baldorie si fanno senza sentimento. Anche John ne ha perso, di sentimento dico, “artigianale” è diventato sinonimo di qualità, un secolo fa voleva dire veleno.

Vedo che un secolo di tomba non ti ha fatto perdere il cipiglio Jack; veniamo alle tue opere: tanti successi, forse il più grande è “Zanna Bianca”, il rapporto uomo natura è uno dei tuoi temi cardine, oggi cosa è cambiato? Ha ancora senso questa contrapposizione?

Vedi, ai miei tempi esisteva ancora l’avventura. Oggi prendi un aereo e mentre un’hostess carina ti serve da bere, in mezza giornata ti ritrovi dall’altra parte del mondo. Noi ci prendevamo dei rischi, li sfidavamo, volevamo capire dove potevamo arrivare e ne è sempre valsa la pena. Anche quando, per una cosa o per l’altra, andava tutto a rotoli e ti trovavi a dartele con qualche marinaio in licenza o a spartirti il pasto in cella con altri vagabondi conosciuti da qualche parte giù al bar, ne valeva la pena, ci riconoscevamo uomini a vicenda. Uomo e natura erano in conflitto come un adolescente con la propria madre; oggi purtroppo quel conflitto pare sia diventato insanabile e non so quanto in questo la mia generazione sia responsabile. Vedi, noi eravamo dei viaggiatori incoscienti, il confine era l’orizzonte e c’era ancora tanto da scoprire, da vivere. Oggi quel confine non c’è più; il mondo è diventato stretto. Credo che ci si senta soli in modo diverso da una volta: quando ti trovi in un ghiacciaio e al calare della notte speri solo che quelle orme di lupo, che hai visto sulla neve, non siano direzionate verso di te e il fuoco non si spenga o ti trovi in mezzo al mare in bonaccia e hai paura di finire l’acqua, magari ti disperi, ma lotti per sopravvivere. Oggi è più difficile trovare una motivazione e ti assale la melanconia come l’afa opprimente di luglio, sul Missisipi.

Di confini parli nella tua ultima opera: “Il vagabondo delle stelle”, in cui oltre all’aspetto politico di denuncia verso la pena di morte e la brutalità del sistema carcerario, in quel caso californiano, parli anche di uscita dal corpo; infrangi l’ultima frontiera: viaggiare con la mente fino alle stelle e anche indietro nel tempo. Credi sia quello l’ultimo confine?

Ogni romanzo è prima di tutto un’invenzione, nel “Vagabondo” parlo di reincarnazione e racconto come la sofferenza di un uomo possa diventare l’escamotage definitivo per renderlo libero. Sai, forse è una sorta di riscatto dalla fine che ho fatto fare a Martin (Martin Eden, il protagonista dell’omonimo romanzo. ndr). L’ho fatto morire suicida proprio perché aveva perso i riferimenti: il successo e John (Barleycorn, sempre l’Alcohol), lo avevano distrutto; dopo tanto lottare per affermarsi come scrittore, non sa più che farsene della sua vita e neanche della donna che aveva tanto desiderato e si lascia morire in mare, ubriaco come una cucuzza. Darrell Standing invece, attraverso il dolore che gli infliggono a San Quentin ( il carcere ndr) ,con la camicia di forza e le botte, trova il modo di rivivere le sue vite precedenti. Alla fine muore impiccato dal boia, ma sereno e curioso di vivere la sua prossima vita, insomma la sconfitta è dei carnefici e quel che conta in fondo è avere uno scopo. 

Per concludere Jack, se dovessi rimetterti a scrivere oggi, di cosa parleresti?

Probabilmente dovrei capire come gira il mondo di questi tempi, forse tornerei a parlare dei problemi dei lavoratori come ne “Il tallone di ferro”, pare che le cose al giorno d’oggi non vadano un granché meglio rispetto a quando ero sulla piazza. Oppure, vista l’età, mi limiterei a fare il commentatore di boxe e anche li ho sentito dire che non va molto bene. Dove sono finiti i grandi campioni? Mah, forse non è più un mondo adatto a me questo; noi a una cosa come la seconda guerra mondiale o il Vietnam, non ci avremmo mai pensato. Magari potrei anche pensare di smettere di bere… ma difficilmente mi ci troverei.    

 

 

Ndr: come ogni intervista “improbabile” le parole che metto in bocca a Jack London rispecchiano una mia visione personale delle sue opere e della sua psicologia; non ho nessuna pretesa di essere verosimile, anche alla luce del fatto che faccio parlare una persona defunta da quasi 100 anni e ciò che dico non vuole essere un testo di critica letteraria. Questa “Intervista improbabile” è da considerarsi esclusivamente come un atto di celebrazione e una dimostrazione di stima a un autore che per me tanto ha significato.

 

 

Edoardo Gazzoni

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