L’oro blu


Non si contano le guerre e i conflitti scoppiati in ogni angolo del mondo per ottenere il controllo delle fonti di oro nero, il petrolio, ma la politica israeliana fatta di muri e annessioni continue punta a un altro oro, quello blu: l’acqua.

Dal giorno della sua creazione lo Stato d’Israele ha un unico obiettivo: controllare il 90% delle risorse idriche della regione. Una legge del 1959 ha reso “proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato” le risorse presenti nel territorio isrelo-palestinese, impedendo di fatto ai palestinesi di accedere ai bacini idrici, in primis quello del Giordano. Con la guerra del 1967 sono state introdotte due disposizioni: il divieto di costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica senza autorizzazione e la confisca delle risorse idriche, garantendo così a Israele il controllo delle risorse d’acqua di Gaza, della Cisgiordania e del Golan. Da quell’anno la quantità d’acqua messa a disposizione  degli agricoltori della Cisgiordania è rimasta invariata (90-10 mc/anno), mentre quella concessa alle colonie è aumentata del 100% dagli anni Ottanta. Nel 1975 infine sono state imposte delle quote di prelevamento di acqua e il loro superamento comporta pesanti sanzioni.

A controllare le sorgenti è la Compagnia israeliana Mekorot che nel 1967 ha sviluppato una rete di distribuzione in favore, quasi esclusivamente, dei coloni. Nei settori palestinesi in Cisgiordania serviti dalla Mekorot la manutenzione delle strutture idriche è talmente scarsa che il 40% dell’acqua trasportata è persa in rete.
Se da una parte gli israeliani beneficiano di acqua corrente durante tutto l’anno, lo stesso non si può dire dei palestinesi, che, soprattutto d’estate, rimangono vittime di interruzioni arbitrarie e si vedono dunque costretti a utilizzare camion-cisterna e bidoni per crearsi delle riserve spesso in condizioni igieniche alquanto precarie.
La Mekorot non pratica solo una distribuzione discriminatoria delle risorse idriche, ma impone anche delle tariffe discrezionali che vanno ovviamente a svantaggio della parte palestinese.

I palestinesi, in nome delle disposizioni del ’67, non hanno il diritto di perforare pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, che nella maggior parte dei casi viene negata.
La situazione più drammatica si registra a Gaza
: qui le precipitazioni sono deboli e scarse, la falda freatica è sovrasfruttata e il 70% delle sue sorgenti è compromesso.  Gli israeliani pompano il più possibile al fine di seccare i pozzi palestinesi e hanno disposto dei piccoli sbarramenti cosicché l’acqua che scorre nei piccole fiume Wadi (uno dei pochi corsi d’acqua che scorrono nella Striscia) è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Israele non si limita al controllo delle sorgenti, ma distrugge sistematicamente le infrastrutture idriche palestinesi. Secondo un rapporto ONU tra la firma del primo (1993) e il secondo accordo di Oslo (1999) sono stati distrutti 780 pozzi. Gli elicotteri dell’esercito bombardano i serbatoi sul tetto delle case e non risparmiano nemmeno le condutture e canalizzazioni che collegano le abitazioni palestinesi.

Lo scopo di questa politica israeliana fatta di divieti, limitazioni nell’utilizzo e nell’accesso delle fonti di oro blu è palese: cacciare i palestinesi dalla Cisgiordania.
Ma c’è un piccolo villaggio a est di Jenin, Faqua, che è riuscito a ottenere una piccola vittoria…il resto nella prossima puntata! 😉

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