La Serial queen per abbattere un certo “genere” di muri


Il muro è l’ostacolo, la barriera che separa. Ma è anche uno dei simboli materiali del limite, qualcosa che appare invalicabile e che segna un confine. La parola limite è un derivato dal latino limes, che vuol dire  sentiero, via tra due campi, oltre che strada militare fortificata (da qui la sua parentela con innumerevoli muri che nel corso della storia si sono innalzati a protezione dei confini).

Il limite è quindi un sentiero che traccia due campi distinti e che nel delineare i due confini diviene linea di demarcazione che si rende visibile, alimentando dunque la fantasia del suo superamento; ogni confine custodisce in sé la sua antitesi: lo sconfinamento.

Nell’ambito televisivo degli ultimi decenni, e non solo in quello, lo sconfinamento si è tradotto in una variegata commistione di generi per quanto rigurda le serie tv. Sono nati così tanti show che utilizzano il loro essere ibridi per sovvertire le norme che prima li relegavano in campi ben distinti (come la commedia o il dramma). Ora, invece, si ritrovano a fuoriuscire dai loro margini e a prendersi quanto più spazio possibile.

Se l’ibridazione è quel fenomeno nato come uno degli elementi che caratterizzano il nostro essere postmoderni, e questo avveniva in un lungo processo che sul finire degli anni ’70 iniziava ad essere definito come tale (leggi J.F. Lyotard “La condizione postmoderna”) e che in architettura aveva già dato i suoi frutti con la visibile eccentricità della città di Las Vegas; ecco che l’essere ibrido, essere il risultato di stratificazione di differenti pensieri, approcci, vedute, diviene necessità creativa anche per la televisione e per i suoi prodotti. Così il nostro piccolo schermo ha iniziato anch’esso, in modo lento ma inesorabile, a sconfinare. E come accogliere quest’istanza del postmodernismo se non andando a intaccare e a disfare la stessa idea metodica della produzione culturale che la vuole relegata all’idea dell’economia in scala organizzata in generi?

Ecco che così vediamo nella televisione di oggi in atto una commistione di generi con l’affiorare dalla superficie piatta dei nostri schermi del dramedy e di altri  prodotti seriali che non si limitano allo stagnare in un unico genere,  ma a tuffarsi in un carnevale del sovvertimento dei limiti inizialmente costituiti su come dovrebbero essere un action, un thriller e o un qualunque altro genere.

Lo sconfinamento però non si ferma qui. All’idea di soverchiare il genere come “contenitore” che delimita cosa sia consentito rappresentare al suo interno, la televisione ha fatto un ulteriore passo in avanti, non limitandosi alla commistione di varie etichette: le produzioni tv, in sintesi, sono andate a riprendere il concetto di prodotto seriale alla radice, ricavandone ben altre idee e intaccando ben altro concetto di genere.

 

LE SERIAL QUEEN DI INIZI NOVECENTO

 

“The Hazards of Helen” (1915)/Kalem Kalendar Co.

Prima delle serie televisive, prima anche dell’avvento del sonoro al cinema, la produzione del cinema muto nel primo decennio del ventesimo secolo aveva iniziato a spostarsi sulla creazione più proficua ed economica su scala popolare dei film seriali; la cui maggior parte era costituita dalle comiche o da prodotti derivati dei romanzi popolari a puntate.

In quest’epoca primigenia del cinema iniziarono ad apparire nei vari nickelodeon non solo la riproduzione visiva del cliffhanger, che fermava l’azione di quella puntata del film seriale sul letterale precipizio a cui il protagonista rimaneva attaccato a penzoloni o comunque in una situazione di precarietà tra vita e morte, ma (cosa piuttosto stupefacente per l’idea che abbiamo della società di inizio Novecento) un buon numero di questi film a puntate non terminavano con un eroe sospeso nel vuoto ma con un’eroina.

 

“The House of Hate” (1918)/Pathé Exchange

Infatti i primi decenni del Novecento sono anche l’era delle Serial Queen, soprattutto il periodo produttivo cinematografico a cavallo della prima guerra mondiale. In un paesaggio culturale notevolmente cambiato con lo scoppio della guerra, il pubblico che si recava al cinema non era più costituito da giovani uomini e da famiglie ma da un gran numero di donne che non potendo accorrere al fronte come la controparte maschile, si trovava a varcare le mura domestiche per provvedere alla sussistenza della famiglia rimasta senza lo stipendio dell’uomo di casa e dunque ad avere anche un’autonomia economica mai avuta in precedenza; le donne entravano in maniera prorompente nella sfera pubblica e quindi vi era la necessità di creare prodotti seriali che le avrebbero attratte a spendere una parte dei loro nuovi guadagni nelle sale cinematografiche.

“The Perils of Pauline” (1914)/ Ecletic Film Company

Le Serial Queen erano questa rappresentazione di donna nuova che all’inizio del Novecento si presentava in società come dinamica, avventurosa e sempre pronta all’azione e queste regine dello schermo effettivamente erano emanazione di questo “vento di libertà”, poiché toccava loro adesso che gli uomini passavano in secondo piano, saltare su un treno in corsa (iconica in questo per i film western a venire l’attrice Helen Holmes), intraprendere pericolose fughe in motocicletta, su aerei e quant’altro. Una delle più amate eroine era Pearl White che costituì uno dei primi esempi di creazione del divismo, tant’è che nella Francia di quel tempo, dove i suoi film riscossero un notevole successo, le sue gonne scozzesi, la sua blusa confortevole, il suo basco, indumenti comodi per una donna pronta all’azione, divennero una nuova moda tra le giovani donne che si trovavano ad andare al lavoro, da poco liberate dai corsetti e busti.

Le Serial Queen furono una piacevole parentesi del mondo seriale che poi in qualche modo venne accantonata per le protagoniste del melodramma, ma questa è un’altra storia.

 

ODIERNE SERIAL QUEEN

La televisione PNG progettato da Mumuxi

Ritornando ai nostri tempi la televisione è divenuta la Serial Queen per eccellenza, è colei che sforna un numero sempre maggiore di prodotti seriali, la sua produzione sta divenendo sempre più corposa nel quantitativo di storie che riesce a raccontare. E se in questo processo di creazione non si fa limitare dall’appartenenza ai generi televisivi, bisogna darle atto che sicuramente sta abbattendo un’altra notevole barriera: l’idea di genere come costrutto socio-culturale che definisce il maschile e femminile; un concetto che di certo prende esempio dalle antesignane regine del serial.

Il muro del genere inteso in tal senso, è un qualcosa che differisce nel tempo e con questo evolve al mutare delle stagioni umane che lo erigono a principio di concetto-contenitore, che definisce l’agire sociale in una determinata collettività. Il processo di ibridazione dei contenuti che sta avendo luogo all’interno della produzione seriale televisiva ha dato avvio anche a questa lenta metamorfosi che ha visto trasformare gli intrepidi eroi, protagonisti di mille avventure, in impavide eroine pronte a sfidare ogni pericolo.

Questo è un lento processo di sconfinamento del genere che negli ultimi anni ha subito un’accelerazione. Questo fenomeno si fa notare particolarmente in alcune serie tv che hanno dato visibilità al cambiamento in atto e spostato sempre più in avanti l’avanguardia di queste odierne amazzoni.

In Person of Interest (2011) vediamo in azione il dinamico duo di Root e Shaw. La serie era nata con l’intento di mostrare in azione in questo bellissimo ritratto del Grande Fratello 2.0 un’altra coppia, quella dell’oscuro e misterioso Mr. Reese e dell’ancora più sfuggente hacker creatore de La Macchina, Mr. Finch; sebbene i due rimangano un punto centrale allo svolgimento della narrazione come facce di una stessa medaglia in una sorta d’immagine sdoppiata di Bruce Wayne/Batman, le vere catalizzatrici della scena, soprattutto quelle d’azione, rimangono Root e Shaw, l’altra hacker geniale della serie e la controparte femminile del super soldato Reese. La serie addirittura al suo finire immola l’immagine di Root a divinità transumana nel farla divenire tutt’uno con la Macchina.

In Orphan Black (2013) sfruttando il potenziale fantascientifico di una serie che si basa sulle conseguenze della clonazione umana, abbiamo una delle più riuscite disquisizioni sul mondo delle donne, e forse la più disparata sfilata di rappresentazioni di cosa possa essere e significare il femminile. Il fatto che una stessa attrice interpreti così tanti ruoli al centro di contesti e azioni sempre nuovi, dona alla serie sfumature geniali e non circoscrive e minimizza mai l’ambito in cui una donna possa venirsi a trovare, dando alla serie una qualità di “inifinitezza”, in seno alla logica che vuole l’infinito come quello spazio senza limiti dove ritrovare la propria libertà.

In Orange is the New Black (2013) non solo abbiamo un cast di protagoniste che rubano completamente la scena alla controparte maschile, ma queste detenute modello nell’immaginario carcere in cui si trovano recluse, fanno  esperienza condivisa di una storia vissuta totalmente nella loro prospettiva: non vi sono vie di fuga, loro risultano il centro nevralgico di ogni avvenimento. Questa serie ha anche il merito di aver sovvertito il genere del prison drama che fino alla sua uscita lo vedeva uno spazio relegato alla rappresentazione maschile (un esempio eccellente: OZ).

E per finire Killing Eve (2017). Questa è la serie che sovverte tutto, ogni genere come lo si vuole intendere: spy thriller, dark comedy o killer psicopatica che vezzeggia l’agente segreta, segretamente innamorata della sua preda. In Killing Eve non vi è ordine: ogni norma viene immancabilmente sovvertita per il gusto e il piacere di chi sta lì a guardare, talvolta la stessa trama pare non abbia linearità. Killing Eve rimane sempre un bel pastiche (di generi) da vedere. Ed è l’esempio lampante di quanto sia visivamente bello e di buon gusto guardare i muri crollare.

 

PER APPROFONDIRE

Alcuni riferimenti nel testo fanno capo a queste letture (per chi fosse interessato):

Butler, Judith. “Performative acts and gender constitution: An essay in phenomenology and feminist theory.” The RoutledgeFalmer reader in gender & education. Routledge, 2006. pp. 73-83.

Dall’Asta, Monica. Trame spezzate: Archeologia del film seriale. Le Mani, 2009.

Lyotard, Jean-François. La condizione postmoderna: rapporto sul sapere. Feltrinelli Editore, 2008

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