Tutto cominciò quell’estate – storie di dipendenza da …


Se non è dipendenza, cos’è?

Estate 2005.

Ho ricordi indelebili di quell’estate. Avevamo appena concluso le medie e ci aspettava un’estate piena di divertimento allo stato puro, senza lo Stress-Da-Compiti-Estivi. Che, beninteso, avevano i nostri genitori, non noi, che era già tanto se facevamo disegni di arte. Quindi, niente più gli Alzati, fai colazione, poi fila a fare i compiti o gli AAAAARGHHHHH, sei a pagina 2 del libro di italiano!!!! Sbrigatiiiiii!!!. No, niente di tutto questo. Solo lunghe dormite, mare, piscina, e amici. Tanti, tantissimi amici.

Quell’estate imparammo praticamente tutti ad andare in moto, anche se ancora non avevamo 15 anni. Chi aveva fratelli più grandi si faceva insegnare da loro. Chi non ne aveva, chiedeva aiuto agli amici. Qualcuno già puntava all’Ape –  eh, sì, avete capito proprio bene. Qualcuno girava ancora in bici ma quelli erano un po’ sfigati: persone da evitare come la peste.

Fu l’estate in cui quasi tutti provammo a fumare.

Un po’ ci piaceva sul serio, un po’ ci faceva sentire grandi, un po’ ci sapeva di trasgressione – finalmente qualcosa di serio che potevamo fare di nascosto. Ci piaceva studiare tutti gli stratagemmi possibili per evitare di farci scoprire dai nostri genitori. Amavamo arrivare ad un passo dall’essere scoperti senza sbilanciarci mai. Mi farebbe piacere sapere se veramente i nostri genitori non si fossero mai accorti di nulla o se facessero finta e sperassero che fosse solo una moda passeggera. Arrivavano a casa maleodoranti, soprattutto nelle sere invernali, quando si stava a distanza ravvicinata e le nostre belle giacche pesanti si impregnavano di quell’odore sgradevole di fumo stantio. E giù scuse: Ero vicino a Carlo, te lo ricordi Carlo? Quello che fuma. Le nostre spiegazioni avevano sempre di mezzo un amico o un conoscente che, per causa di forza maggiore, aveva dovuto confessare il nuovo vizio.

Ma al di là del rischio – Dio, quanto ci piaceva rischiare! – ci piaceva l’idea della sigaretta: un momento di relax in cui stavamo insieme, solitamente in cerchio, e sparavamo cazzate, seduti sui muretti dei parchi, sui gradini delle chiese, in sella a motorini non nostri. E lì, come i grandi, stare ore e ore a parlare di niente. La nostra maturità durava davvero poco: di solito arrivava Cisco con la palla e finivamo per giocare a calcio nel campetto fino a notte fonda. 

In quell’estate, provammo anche le canne.

La prima volta non piacque a nessuno. Ma dalla seconda in poi, iniziammo a bearci della sensazione che ci dava: uno stato di rilassatezza diffusa. Con una canna in corpo avremmo potuto affrontare qualunque cosa: i problemi ci sembravano lontani. Forse, avremmo potuto pure dire a Cristina quanto fosse bella ma soprattutto quanto lo fosse sua madre.

Sempre in quell’estate, iniziammo a bere.

Inizialmente, bevevamo per divertirci coi più grandi, anzi: erano proprio loro che ci offrivano da bere. Avevano una tale naturalezza nel farlo che cominciammo a farlo pure noi.

In un primo momento bevevamo per i fatti nostri. Andavamo in bocciofila e davanti a tutti i parenti – perché c’era sempre almeno un parente nei paraggi – compravamo una bottiglia di birra, dicendo che era per il cugino del nonno dello zio che era giunto da Canicattì per salutare la cugina in seconda. Nessuno ci credeva, ma nessuno diceva niente. Anche perché, spesso, il parente in questione stava fumando il secondo pacchetto della giornata con una birra in mano e tre amici alcolizzati intorno.

Ma alle volte capitavano i parenti ‘perbene’ e lì era un casino: con una prontezza di riflessi inaudita, si comprava un gelato, il Cucciolone, di solito. In questo modo si avevano due contentezze: il parente era contento di avere a sua volta un parente così serio, anzi, al limite dell’infantilità, e tu eri contento perché sotto sotto il Cucciolone ti piaceva un sacco. Gli amici non partecipavano di questa felicità diffusa. E come biasimarli: avevi usato i risparmi di quattro persone finalizzati all’acquisto di una birra per un gelato. Che ti eri mangiato da solo, per giunta! 

Dalla bocciofila passammo poi al supermercato.

Che ridere, allora, tra le cassiere! Vedevano almeno cinque sbarbatelli impacciati più che mai che non riuscivano a trovare il reparto alcolici. Una volta trovato, non sapevano decidere quale birra scegliere, tante erano le possibilità. Poi, sceglievano quella più a buon mercato di tutte – che spesso corrispondeva con la più imbevibile. Nessuno aveva il coraggio di toccare la bottiglia incriminata, ma uno doveva pur pagare, e puntualmente veniva estratto a sorte. Pagato, un altro sfortunato avrebbe dovuto portarla di nascosto a casa, senza farla vedere a nessuno, in particolare ai fratelli più piccoli che, buon’anime, capiscono sempre un paio di anni dopo quello che non devono dire ai genitori. Sono fatti tutti con lo stampino.

Che risate in quell’estate. Che risate per il nostro imbarazzo.

Le estati successive eravamo già più pratici. Sapevamo dove andare, in quali orari, con quali persone. Inizialmente, il nostro unico interesse era quello di farci gli affari nostri: noi non davamo noia a nessuno e nessuno dava noia a noi. Poi, iniziammo ad avere il desiderio di allargare la compagnia: andammo nel pub del paese, quello in cui si riuniva tutta la gioventù della valle. Lì il miracolo: c’erano ragazzi di tutte le età, dalla nostra in su, che fumavano – sigarette o canne – e bevevano alla luce del sole, senza particolari inibizioni. Che meraviglia! Iniziammo a farlo pure noi, iniziammo a bere di più, a fumare di più.

Mi ricordo l’estate dei 17 anni in cui tornavamo un weekend sì e l’altro pure totalmente sbronzi a casa. Quanti litigi coi nostri genitori… Loro ce lo menavano per qualunque cosa ma noi ci sentivamo liberi solo così. Come se avessimo voluto dimenticare anche solo per un attimo quello che la gente si sarebbe aspettata da noi. Noi non eravamo come gli altri: noi non stavamo negli schemi.

Mi ricordo distintamente che prendevamo in giro non tanto i più piccoli quanto i più grandi. Gli universitari. I lavoratori. Che sfigati che erano: prendevano una birretta, talvolta manco quella, e parlavano per ore e ore di argomenti inutili e noiosi. Spesso non uscivano manco al venerdì, ma solo al sabato sera. ‘Sono vecchi dentro’, dicevamo. Noi non saremo così alla loro età.

Poi gli anni sono passati, e pian piano il nostro amore per l’alcol e il fumo è scemato.

Ci siamo ritrovati a passare delle serate intorno ad un tavolo mangiando pizza e coca cola, a parlare del più e del meno. Alcuni di noi fumano ancora, ma in misura minore rispetto a qualche anno fa: quattro, cinque sigarette al giorno al massimo. Altri hanno proprio smesso. Si erano stufati, dicono. O si erano innamorati. Alcuni si erano resi conto di non avere più fiato e ne sono rimasti spaventati. Altri ancora avevano la ‘buzza’ da alcolizzato.

Oggi, ci piace sempre bere, ma con moderazione.

Facciamo ancora delle serate ‘a sfascio’ ma rare e circoscritte ad eventi particolari: compleanni, lauree, matrimoni (eh, già). Qualche volta capita che delle serate iniziate in maniera banale si rivelino poi spettacolari: la compagnia è presa bene e torniamo per un attimo ai vecchi tempi. Belle, quelle serate. ma solo in ricordo dei bei tempi perché farlo tutte le sere sarebbe infattibile: io lavoro, io ho una casa, io mi sposo, io ho quasi un figlio,….

Riflettendo sulla compagnia, uno o due hanno continuato la vita di prima.

Un ragazzo fuma ancora due pacchetti di sigarette al giorno. Un altro beve tutti i giorni e non va a dormire se prima non ha preso la sua birretta, con qualcuno o da solo. Quest’ultimo spesso si dimentica di alzarsi la mattina perché la sera ha fatto tardi e arriva in ritardo al lavoro: il capo lo sgrida ma non lo licenzia mai perché è bravo, cazzo, è bravo. Se solo la smettesse di bere… 

Questi amici mi fanno paura. Forse perché stanno facendo la stessa identica vita da quasi 15 anni. O forse perché hanno un pancia da alcol inquietante o perché quando entrano in una stanza portano un odore così pungente di fumo che non riesco a star loro vicino. Magari è perché quando parlano hanno un tono di voce che non riconosco. Poi, hanno le dita gialle e i denti neri.

Ma forse il problema sono io.

Ho conosciuto persone malate di tumore alla gola causato dal fumo, ho ascoltato storie vere di mariti ubriachi che picchiano le mogli, o di bambini costretti a subire violenza. Forse ho un’ansia immotivata dopo l’infarto del mio vicino di casa che ha dovuto smettere di fumare per vivere ancora. Oppure la mia è solo rabbia per una mia amica che non ha mai toccato una sigaretta né ha mai toccato alcol ma alla quale hanno diagnosticato un tumore al seno mentre ragazzi in perfette condizioni di salute hanno deciso di gettare via la loro vita.

Forse il problema sono io.

Ma quando vedo i quindicenni di oggi (gli stessi che eravamo noi ieri) che fumano e bevono, quando li sento pronunciare frasi come: che loro sono diversi, che smettono quando vogliono, che in fin dei conti fumare non fa male perché un tumore potrebbe venire a chiunque indipendentemente dal fumo o dall’alcol…

Ecco, in quei momenti ripenso ai miei amici di ora. E mi sale un brivido lungo la schiena.

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