La strana distinzione: il gusto millennial all’epoca di Stranger Things.


Quando si parla di consumo culturale  si parla inevitabilmente di gusto o, per dirla con le parole  di una certa sociologia, di  distinzione. Quando invece parliamo di consumo culturale di una determinata generazione solitamente il primo terreno di confronto, la prima fonte  se vogliamo, è quella del marketing. Il linguaggio del marketing è il più intenzionato a voler trovare definizioni esatte, tendenze sull’elaborazione del gusto nella distinzione e per la distinzione fra le generazioni. Non a caso a definire il termine Millennials  è stata la rivista Ad Age dedicata a pubblicità e affini.

La volontà di conoscere i gusti dominanti in relazione a determinate generazioni è un fattore realmente interdisciplinare.  All’analisi sociologica subentra in modo naturale l’interesse per le analisi di mercato, e i Millennials ne rappresentano oggi una delle fette più importanti . Tenendo conto di quanto detto, la generazione di chi scrive si dovrebbe riconoscere immediatamente come fattore imprescindibile nell’esercitazione di una influenza sulle produzioni dell’industria culturale che consideriamo “mainstream”.  Nei fatti, restringendo il nostro campo d’azione all’industria cinematografica e televisiva, possiamo notare che anche solo nell’ultimo mese almeno due dei fenomeni riconosciuti sono direttamente rivolti al richiamo di un pubblico cresciuto con le produzioni hollywoodiane degli anni ’80 e dei primi anni ’90. E parliamo ovviamente di  Stranger  Things e di  It, che oltre ad avere influenze reciproche e allusioni dichiarate fanno parte di quell’immaginario a gran voce richiesto e in gran quantità prodotto in questi anni.

Citazionismo ed estetica anni 80 in Stranger Things

Lo spettatore millennial non potrà non riconoscersi e sempre più spesso è chiamato ad identificarsi con prodotti simili, esplicitamente rivolti a lui. Senza più il filtro di un linguaggio che potevamo definire attorno agli anni ’90 come propriamente postmoderno, con più livelli di lettura, siamo chiamati a confrontarci con operazioni dichiaratamente citazioniste ma lineari nella loro proposta. Ancora una volta la magia del marketing si concretizza in quella capacità di darci ciò che vogliamo ancor prima della formulazione di una domanda. Mai come ora, forse, questa domanda di nostalgia ampliamente standardizzata, normalizzata quasi fosse un metagenere che include un po’ ogni tipo di storia, viene pensata per un doppio binario di ricezione. Da una parte fortemente voluta e cercata dal pubblico millennial viene in concreto sfruttata e fruita da un pubblico più vasto, nella normale logica di una economia di scala.

Esempio: per un ampio successo come nel caso di It, non consideriamo solo il suo essere un remake della precedente miniserie del 1990, quindi rivolta a una determinata generazione, ma anche un nuovo adattamento del romando di King e contemporaneamente un horror dallo stile contemporaneo. In particolare questo ultimo aspetto è in grado di attirare al cinema un nucleo di spettatori più giovani che, anche non conoscendo i testi precedenti, potranno tranquillamente godere della componente del prodotto a loro più adeguata. Attraverso un linguaggio a loro affine (il “jumpscare” innanzitutto) viene garantita una alta soglia di accesso. Qualcuno direbbe uno “svecchiamento” che mantiene il sapore “vintage”. Ecco quindi il testo aprirsi alla generazione Z, ma rincuorando noi, generazione Y, con la lettura nostalgica che il racconto “coming of age” di King porta facilmente con sé. Ambientando l’azione nel tempo di una infanzia (cinematografica) condivisa l’immaginario di riferimento è automaticamente innescato. Certamente potremmo parlare di un trattamento StrangerThings. Rivolgendosi a un nuovo pubblico queste storie di genere non fanno altro che continuare la loro tradizione rassicurando al contempo il millennial con la messinscena delle sue ossessioni, dei suoi piacere e in definitiva del suo gusto veicolato da scelte estetiche precise.

“Sense of wonder” o costruzione dell’atteso jumpscare?

Non volendo di certo sconfinare in ambito sociologico, ci sembra ugualmente di poter dire che lo spettatore millennial si trova investito ora come non mai del ruolo di detentore del giudizio, di custode del gusto, proprio quando sente intimamente una distinzione che lo separa dalle generazioni precedenti ma soprattutto nella difficoltà di comprendere quella successiva. Con la ritualità di certe visioni (Una poltrona per due a Natale? E a quando l’ennesimo Nightmare Before Christmas?) si ristabilisce una identità e la si vuole in parte imporre a nuovi adepti che spesso fanno largamente uso di altre forme di aggregazione, soprattutto nuova serialità, youtube e multiplayer online. La prima generazione i cui membri si possono considerare parte della rivoluzione digitale avverte come una fuga in avanti dei suoi oggetti di desiderio, una vertigine dovuta alla mancanza di controllo sull’innovazione tecnologica che con essa ha avuto avvio. Anche sfruttandone i meccanismi in maniera consapevole sente di non cavalcarla come le nuove generazioni di nativi digitali. Sia chiaro, l’alfabetizzazione informatica non è appannaggio esclusivo di queste ultime, tuttavia il sentimento di una mancanza è avvertito in maniera quasi fisiologica. La banalità dei new media (se ancora ha senso l’aggettivo new) genera un bisogno che spesso si cristallizza in una necessità che è quella di un ritorno allo stupore, del recupero di quello sguardo pieno di meraviglia. In definitiva il “sense of woder”. Modalità dello sguardo restituita da molto cinema di genere anni ’80 e spesso descritto come la visione di riferimento, in cui la tecnologia già presente nelle vite quotidiane veniva comunque acquisita come una conquista proiettata verso un futuro cyberpunk. Se poi questo romanticismo sia più dovuto all’operazione di recupero in sé stessa è altra questione. Resta il fatto che gli stessi autori coinvolti nelle produzioni attuali parlano di un generica nostalgia per un mondo più umano. Tradotto per il millennial questo è un mondo già saturo di tecnologia ma in cui lui si riconosce più facilmente e in cui le relazioni, le scoperte, le visioni, sono ancora debitrici di una certa dedizione, di un lavoro di ricerca.

Nell’epoca dell’accesso il Millennial è forse anche un po’ invidioso della facilità con cui i prodotti culturali sono visti avendo subito, ai suoi occhi, una ulteriore perdita della loro aura.  Al Millennial piacerà sempre l’idea di doversi procurare una copia vhs del suo cult di riferimento da poter portare con sé o condividere in una visione collettiva. Il gusto di una tecnologia che è memoria di un’esperienza. I gusti sono strumenti di potere e il Millennial farà di tutto per mantenere la sua nostalgia al centro degli interessi dell’industria culturale.

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