L’Anticamera della morte, opera-testamento di Pinot Gallizio


Vasi, brocche, mortai, utensili, una bilancia, un pendolo, persino un teschio, fissati per sempre in una nera immobilità. Compie cinquant’anni l’Anticamera della morte, e a mezzo secolo dalla realizzazione continua a raccontarci la storia di un uomo, quel Giuseppe “Pinot” Gallizio troppo spesso dimenticato nel nostro Paese. Una vera e propria “opera-testamento”, autobiografia a tre dimensioni di un artista eclettico capace di ritagliarsi un ruolo di primo piano nel panorama culturale europeo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso.

Conosciuto soprattutto come inventore della pittura industriale, in circa dieci anni di attività Gallizio seppe infatti imporsi all’attenzione di critica e pubblico come fondatore, insieme tra gli altri a Guy Debord e ad Asger Jorn, dell’Internazionale situazionista – uno dei principali movimenti d’avanguardia del secondo Novecento – discostandosene in seguito per proseguire nella propria personalissima ricerca artistica.

Chimico, erborista, enologo, persino archeologo, Gallizio approda all’arte in età già matura, travasando nella propria produzione un vastissimo patrimonio di conoscenze tecniche e scientifiche, con ricadute evidenti in special modo nella sua instancabile ricerca su materiali, resine, solventi, colori, ma anche nei titoli che egli scelse per i propri lavori, su tutti quella Caverna dell’antimateria che alla fine degli anni Cinquanta gli valse notevoli riconoscimenti a livello continentale.

Realizzata tra la fine del 1963 e l’inizio dell’anno successivo, l’Anticamera della morte vuole essere sintesi e suggello di questo variegato percorso, al termine del quale tutto trova ordinatamente il proprio posto, e al tempo stesso preconizza, come una sorta di oscuro presagio, la scomparsa dell’artista, avvenuta nel febbraio del 1964.

Le scaffalature e la credenza di cui l’installazione si compone sono ingombre di oggetti prelevati dal vissuto di Gallizio e collocati dall’artista secondo una disposizione che nulla ha di casuale. I vasi di terracotta rimandano alla prima metà degli anni Cinquanta, quando Gallizio fece il proprio ingresso nel mondo dell’arte al fianco dell’amico Piero Simondo. I mortai ci ricordano il suo passato di chimico ed erborista, uno stampo per pasticche racconta della sua attività di farmacista e fabbricante di dolciumi. Ci sono cimeli dolorosi, come un pugnale collocato a simbolo di una gioventù segnata dal ventennio fascista, ed altri collocati a testimonianza della sua pregressa attività commerciale, come una macchina per la duplicazione delle fatture. Una bilancia e un pendolo si caricano di significati simbolici ed ermetici.

Ciascun ripiano, inquadrato isolatamente, ha tutto l’aspetto di una vera e propria “natura morta”, sottratta all’incedere del tempo e condannata a una fissità senza fine: un teschio, emblematicamente collocato accanto a una vecchia rivoltella, è un richiamo esplicito alla morte. Ma è dalla struttura nel suo complesso che promana un’atmosfera funerea, alimentata dall’opaca pittura a polvere di nerofumo con cui l’artista ha uniformemente ricoperto l’intera superficie.

Non è la prima volta che il nero diventa protagonista incontrastato di un’opera di Gallizio. Al contrario, l’Anticamera della morte viene a inserirsi in un ciclo di opere – indicate dalla critica proprio come i Neri – prodotte tra il 1963 e il 1964 e caratterizzate, oltre che dal prevalente ricorso alla tecnica dell’assemblage, dall’utilizzo esclusivo di questo colore, che si fa al tempo stesso negazione del colore, annullamento della materia.

L’utilizzo di un’uniforme patina nera ha spinto la critica a identificare nell’Anticamera della morte una sorta di “Wunderkammer al rovescio”, con evidente contrapposizione al Merzbau di Kurt Schwitters, costruzione autobiografica nella quale troviamo radunati tutti gli oggetti in qualche modo divenuti importanti nella vita dell’artista tedesco, assemblati pezzo dopo pezzo in una sorta di work in progress ineluttabilmente destinato a rimanere incompiuto: una connotazione semantica diversa rispetto all’Anticamera di Gallizio, rafforzata dal predominare del bianco in una struttura realizzata per lo più in legno e gesso.

Affascinante è anche l’accostamento alle sculture dell’americana Louise Nevelson, che Gallizio aveva potuto ammirare esposte alla Galleria Notizie di Torino nel 1962. Negli assemblage dell’artista statunitense la dimensione narrativa, come per Pinot, assume un ruolo di primo piano: gli oggetti sono prelevati dalla vita di tutti i giorni e inseriti all’interno di una sorta di “architettura memoriale”, come ebbe a definirla Germano Celant in uno scritto del 1973. Si aggiunga l’utilizzo del nero, per Louise Nevelson punto di partenza di una trama poi virata verso un ampliamento della gamma cromatica, per Gallizio, invece, approdo ultimo di un viaggio intrapreso una decina di anni prima e proseguito per lungo tempo nel segno del colore e di una crescente matericità.

Esposta al pubblico per la prima volta nel 1992, l’Anticamera della morte è oggi custodita allo Spazio Gallizio, nel cuore della città di Alba, non lontano dalla casa-laboratorio nella quale l’artista visse e lavorò fino alla fine dei suoi giorni. Dopo mezzo secolo, è ancora lì a ricordarci – come disse Franco Garelli nel 1965 – che «nella sua storia Alba non è mai stata una località delle Langhe e basta: ogni tanto uno spermatozoo ha tremato per l’arte creando qualcosa di eccessivo, qualche barbaglio di protesta e di vita che esce dal fatto locale».

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