Elogio della letteratura fantastica: dalle origini all’horror


«I racconti d’immaginazione offrono una lieta e salutare liberazione dall’opprimente tirannia dell’antropocentrismo». Queste parole di Clark Ashton Smith sono il miglior biglietto per cominciare il viaggio nella storia della letteratura fantastica. Perché se c’è una cosa che hanno in comune i tre generi maggiori del fantastique – o speculative fiction, per dirla all’anglosassone – è proprio la capacità di trasportare il lettore in mondi nuovi e lontani, distanti nel tempo e nello spazio, possibili o alternativi.

E il più delle volte, il protagonista di queste storie non è l’uomo. O meglio, l’essere umano è quasi sempre al centro del racconto, ma di frequente accade che a muovere i pezzi sulla scacchiera siano entità intangibili, dèi onnipotenti o eminenze nascoste. Come a dire che i mondi fantastici non sembrano costruiti per l’uomo: forse la fantasia serve proprio a ricordarci che neanche il mondo reale lo è.

Questa lettura “sociale” del fantastico è stata osteggiata nel corso del tempo da chi ha visto nella finzione letteraria una forma di evasione, un passatempo fine a sé stesso e quindi privo di reale valore. Certamente, specie ai giorni nostri, la fantasia è anche fuga dal reale, divertimento, consumo. Ma la funzione primaria del fantastico è stata, storicamente, quella di proiettare al di fuori di sé, elaborare e quindi analizzare e capire, quelli che sono i sentimenti più profondi dell’essere umano: paure, ansie, aspirazioni alla grandezza, volontà di comprensione dei misteri del mondo.

Se infatti la letteratura fantastica può vantare precursori illustri – dalla mitologia al poema cavalleresco, dalla Commedia di Dante Alighieri ai drammi shakespeariani – è nel Settecento che essa muove i primi passi. Il fatto che il fantastico cominci a diventare genere letterario proprio nel Secolo dei Lumi può apparire un paradosso: così non è se – tornando a quanto detto in precedenza – lo si interpreta come il tentativo dell’uomo di affrontare l’inspiegabile attraverso l’arte.

Scrive in questo senso Giuseppe Lippi, nell’introduzione all’opera omnia di H.P. Lovecraft edita da Mondadori, che l’affermazione del fantastico nel XVIII secolo fu legata probabilmente proprio a «uno spirito critico che prendeva gusto ai paradossi della ragione». Della stessa idea si dimostra lo storico delle idee Jacques Barzun, più volte citato da Lippi nella sua introduzione, quando sostiene che «per provare il disagio a cui mira una ghost story, bisogna cominciare con la certezza che i fantasmi non esistono».

Ecco, appunto, le storie di fantasmi: è proprio da lì che la letteratura fantastica muove i primi passi. Il fantastique come lo conosciamo oggi trae infatti le sue origini da romanzi e racconti gotici che sul finire del ‘700 si affacciarono sulla scena artistica europea. Il primo romanzo del genere – firmato non casualmente da un autore inglese, a dimostrazione della futura preminenza della letteratura anglosassone in tutto il filone della speculative fiction – è Il castello di Otranto, di Horace Walpole (1764).

Vero e proprio ponte tra il teatro di William Shakespeare e la letteratura, l’opera di Walpole è il primo passo sulla strada che porterà alla nascita del genere horror, quasi un secolo più tardi. Nel frattempo, infatti, il racconto gotico raggiunge la maturità grazie a capolavori della letteratura mondiale come Frankenstein di Mary Shelley (1818) e Dracula di Bram Stoker (1897), che segnano l’apice della letteratura fantastica del XIX secolo.

L’affermazione dello stile romantico, che per tutto l’Ottocento caratterizza la letteratura fantastica, secondo Barzun fa entrare in gioco «una tipica sfumatura del nostro sentire, il gusto, che ci permette di arrivare non a una negazione, ma anzi a un ampliamento dell’esperienza». Il fantastico quindi non si configura come una semplice fuga dalla reale, bensì come una lente nuova e sempre diversa attraverso cui guardare la realtà stessa. Ne sono consapevoli anche Robert Louis Stevenson e Oscar Wilde, che nell’ambito di una produzione ampia e variegata hanno saputo regalare al genere fantastico due pietre miliari come Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde (1886) e Il ritratto di Dorian Gray (1890).

Già confrontando queste ultime opere con le due citate in precedenza si può apprezzare un sensibile mutamento nella prospettiva con cui gli scrittori si avvicinano al fantastico e alle tematiche di cui esso è portatore. Sia in Frankenstein che in Dracula, infatti, l’orrore proviene da qualcosa di altro rispetto all’individuo: la Creatura di Mary Shelley è frutto dell’ambizione del dottor Frankenstein, che come un moderno Prometeo verrà punito per la sua superbia; il malvagio Conte pare invece un emissario del Diavolo in persona, votato irriducibilmente alla corruzione.

Diversamente da queste due opere, i romanzi di Wilde e Stevenson raccontano di uomini che covano l’orrore all’interno di sé stessi. Poco importa che esso si manifesti attraverso una pozione misteriosa o un quadro maledetto: il messaggio che entrambi gli autori sembrano voler trasmettere è che l’uomo non può separarsi dal male che alberga nella sua anima. Non fisicamente, almeno.

Nel frattempo, però, la trasformazione si è completata: la letteratura gotica ha definitivamente ceduto il passo all’horror moderno, che vede gli albori tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. A suggellare questo passaggio c’è il talento assoluto di Edgar Allan Poe, vero e proprio maestro della letteratura dell’orrore, in grado di offrire la rappresentazione più compiuta del filone gotico anticipando al contempo le tematiche di quello che sarà l’horror del secolo successivo.

Un percorso ripreso e portato verso nuovi orizzonti da Howard Phillips Lovecraft, che con il suo “orrore cosmico” (una particolare forma di fanta-horror psicologico) ha posto le basi per la grande fantascienza del secondo dopoguerra. Il passaggio da Poe a Lovecraft è particolarmente significativo nella misura in cui le sensazioni intime e “umane” dello scrittore bostoniano (come la paura per la malattia e la tortura o il senso di colpa) lasciano spazio in Lovecraft alla pazzia e al terrore per una serie di entità aliene che sembrano decidere nell’ombra il destino dell’umanità.

Una differenza apparentemente macroscopica, che si rivela però a una lettura attenta l’esatto opposto, cioè un punto di contatto tra i due autori: perché i misteriosi mostri di Lovecraft altro non sono se non le proiezioni di quegli stessi sentimenti che animano i racconti di Poe, amplificati e distorti dalle paure del secolo nuovo. Come il suo maestro e predecessore, anche lo scrittore di Providence riesce con i suoi scritti a dare «una risposta immaginativa ai problemi del suo essere e della sua condizione» (Lippi).

Con la stagione inaugurata da Io sono leggenda di Richard Matheson (1954), il Novecento segna il progressivo esaurimento della letteratura horror di stampo fantastico, che si espande al cinema ma sugli scaffali lascia spazio al realismo di autori come Stephen King, che porta un netto distacco dal mondo dell’immaginario. «L’horror attuale – scrive ancora Giuseppe Lippi – vuole farci accettare il terrore come una presenza nella vita di tutti i giorni, ma che non la trascende più». Se prima «la paura doveva essere raggiunta in virtù dell’invenzione, […] nell’ultima ondata dell’horror quel che preme non è tanto l’invenzione, ma l’effetto immediato e viscerale che avrà in quanto spauracchio. […] Scegliere immagini convenzionali serve a due scopi: rendere la storia accettabile ad ogni tipo di lettore e sfruttare le sue mai sopite paure infantili».

La fine dell’epoca d’oro della letteratura horror, però, non ha segnato il tramonto del fantastico. Il XX secolo, infatti, ha visto l’affermazione definitiva degli altri due generi che animano questo filone, ovvero il fantasy e la fantascienza. Proprio alla fantascienza sarà dedicato il prossimo articolo, in uscita tra sette giorni sempre qui su Discorsivo.

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