La “fabbrica della paura”: l’anomalia italiana del rapporto tra politica e giornalismo


Cave canem, recita il logo scelto da Michele Santoro per la trasmissione Servizio Pubblico. Attenti al cane. Facile intuire che il cane ringhioso sia metafora del programma stesso e che l’avviso sia rivolto ai politici oggetti di inchieste scomode. In America – utilizzando la stessa metafora – questo tipo di giornalismo investigativo viene definito watchdog journalism, ossia un giornalismo che fa da cane da guardia al diritto d’informazione dei cittadini. Il giornalismo visto come prode difensore dei cittadini dagli abusi del potere politico è il mito fondativo del giornalismo stesso.

In Italia – diversamente dalla maggior parte dei paesi più avanzati – questa relazione è ambigua e inconsueta: il giornalismo lavora a rimorchio della politica, e non viceversa, e in questo modo l’agenda delle notizie è stabilita da un input della politica.
La dominanza assoluta del fattore politico è il vero marchio di fabbrica del giornalismo italiano, così come lo è la strettissima dipendenza dal potere politico -ed economico. Il giornalismo italiano non è riuscito neanche dopo la fine della censura fascista, quando ci si sarebbe aspettati una fiorente rinascita, ad ottenere una degna autonomia: proprio questa mancanza di autonomia impedisce tutt’oggi al giornalismo italiano di incalzare il potere e di giocare un ruolo attivo nella formazione dell’opinione pubblica.

I politici sanno perfettamente che i media rappresentano uno dei mezzi principali per la creazione del consenso, e in questo senso il giornalismo diviene interlocutore ideale per gli “imprenditori politici della paura”: Luigi Ferrajoli sostiene che la televisione sia diventata una “fabbrica della paura”, atteggiamento tipico di un giornalismo strettamente connesso con gli interessi di una politica che ha imperniato sul tema della sicurezza e dell’immigrazione programmi e campagne elettorali.

Guido Viale ha descritto la fase storica attuale come “dittatura dell’ignoranza”. Lo strumento principale di questa operazione sarebbe, in Italia, la televisione:
la peggiore del mondo, non solo nei notiziari e nelle trasmissioni politiche, quanto soprattutto nella pappa securitaria (fondata sulla propalazione della paura) e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso dalle trasmissioni di intrattenimento (Viale 2010).

C’è una grande differenza tra la comune percezione dell’insicurezza e la reale consistenza del fenomeno criminale. Nel 2010 viene presentato il rapporto “La sicurezza in Italia. Significati, immagini e realtà”, in cui vengono mostrate la mancanza di correlazione fra l’andamento dei reati e quello della loro notiziabilità e la correlazione fra numero di notizie e percezione del pericolo criminalità da parte dei cittadini. Un altro dato emerso dalla ricerca è che in nessun altro paese compaiono nei Tg notizie relative a fatti di criminalità con così tanta frequenza come l’Italia.

tesi2
tesi3
Zygmunt Bauman fa in proposito un’inferenza interessante:

se le radici dell’insicurezza affondano in luoghi anonimi, remoti o inaccessibili, non è immediatamente chiaro che cosa i poteri locali, visibili, possano fare per porre rimedio alle afflizioni (Bauman 2000).

E la soluzione viene quindi trovata nella sicurezza, chiamata a colmare un vuoto ideologico della politica e venendo così ridotta a problema di ordine pubblico. Marcello Maneri descrive così la situazione italiana: i media danno un volto concreto al nemico-estraneo contribuendo alla costruzione di un “panico morale”, un dispositivo che trasforma la “mancanza di security” – l’insicurezza esistenziale – e la “mancanza di certainty” – l’incertezza cognitiva – in allarme per la sicurezza personale (“safety”) (Maneri 2001, p. 1).
Questa leggerezza dei media è data anche dal fatto che il giornalismo italiano si concepisce non come specchio della società, ma come muto spettatore: non si fa carico della tutela dei diritti dei più deboli o della critica e della denuncia dei potenti, ma si piega a questi ultimi e ai loro interessi. Il linguaggio dei media, frutto di conformismo e inerzia professionale, finisce così per coincidere con quello del potere, in particolar modo con quello xenofobo e razzista di certa parte politica.

Nel 2008, subito dopo la nascita del nuovo governo Berlusconi, il sistema televisivo – controllato dallo stesso Berlusconi (Mediaset) e dai partiti di governo (Rai) – ha messo in atto quella che Lorenzo Guadagnucci definisce “strategia dell’ottimismo” (Guadagnucci 2010): le notizie dei telegiornali si sono incentrate ancora di più su crimini, rapine, omicidi e immigrazione, mascherando così la crisi economica incombente che avrebbe rischiato di aprire gli occhi ai cittadini nei confronti del governo in carica.
Ma non sono solo gli interessi politici quelli che vengono protetti dai media: parlare dei settemila morti sulle strade porterebbe a una riflessione scomoda sull’industria automobilistica, mentre i tremila morti sul lavoro spingerebbero ad indagare sulle condizioni d’impiego della manodopera. Chi controlla il mercato, naturalmente, preferisce che si parli d’altro.

Esemplari e molto attuali sono, in questo contesto, le parole di Noam Chomsky ed Edward S. Herman contenute nel libro “La fabbrica del consenso”; i due autori giudicano il giornalismo mainstream degli anni ’80 come:
un mix di conformismo ideologico, propaganda e perseveranza nella menzogna da parte del potere. Non servono né censori né cospirazioni. È sufficiente il carrierismo, il conformismo e l’auto-censura. È il libero mercato dell’opportunismo a muovere il mondo dei media e a selezionare darwinianamente la specie giornalistica. Se la notizia è una merce, allora i media commerciali sono più che mai dipendenti” (Chomsky, Herman 2008, in Guadagnucci 2010).Un altro dei fattori che viene additato come causa della mancanza di autonomia nel giornalismo italiano è lo sfruttamento degli stessi giornalisti. Dei centomila giornalisti iscritti all’Ordine, solo 22.187 hanno un regolare contratto di lavoro e circa 18mila sono occupati a tempo pieno. Caratterizzanti della professione sono scarsi stipendi e lunghi periodi di precariato. Questi giornalisti sfruttati e sottopagati si sono rassegnati alla passiva accettazione di regole imposte dall’esterno.

 

“Se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto.”
(Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti)


Fonti

– Zygmunt Bauman (1999), In Search of Politics, Stanford University Press, Stanford  (trad. it La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000)

– Lorenzo Guadagnucci (2010), Parole sporche. Clandestini, nomadi, vucumprà: il razzismo nei media e dentro di noi, Altreconomia edizioni, Milano

– Marcello Maneri (2001), “Il panico morale come dispositivo di trasformazione dell’insicurezza”, in Rassegna Italiana di Sociologia,  Il Mulino, Bologna

– Marco Travaglio (2006), La scomparsa dei fatti, Il Saggiatore, Milano

4 Commenti

Aggiungi
  1. Anonimo

    brava Chiara Tadini! sono totalmente d’accordo, purtroppo é proprio cosí. Credo che oggi, in tutto il mondo, non solo in Italia, essere giornalista e svolgere il proprio lavoro con etica e morale sia sempre piú raro. Ma speriamo nelle nuove leve, quelli che ancora non si sono lasciati assorbire da questo sistema di “fabricazione di articoli”. Complimenti!

+ Lascia un commento