Pearl Harbor in fiamme: fuoco sulla perla del Pacifico


7 dicembre 1941. Sulla base navale americana di Pearl Harbor iniziano a piovere fiamme dal cielo: bombe sganciate dagli aerei giapponesi, che distruggeranno quasi completamente la flotta americana. L’attacco conclude una lunga “guerra fredda” tra Giappone e Stati Uniti, aprendo nel Pacifico un nuovo vasto teatro di azioni militari che si affianca a quello già attivo in Europa.

Il Sol Levante aveva bisogno di espandersi per far fronte alla crisi economica affermatasi dopo quattro anni di guerra con la Cina, che avevano dissanguato il Paese. Per far fronte ai problemi della povertà e della fame, l’esercito sosteneva la tesi di un fulmineo raid contro il Sud-Est asiatico, al fine di arricchirsi con prodotti del suo mercato come riso, petrolio, stagno, zucchero, tabacco.

L’impero giapponese aveva assicurato agli Stati Uniti che la progressiva espansione nel Sud-Est dell’Asia sarebbe stata pacifica, ma il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, grazie a un sistema chiamato Magic della Marina statunitense (che riusciva a decifrare i codici segreti dei giapponesi), sapeva con certezza che le intenzioni del Giappone erano tutt’altro che pacifiche. La Marina nipponica si preparava a sferrare un attacco fulmineo che doveva vibrare un colpo mortale agli Stati Uniti.

L’operazione militare di Pearl Harbor fu ideata dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto e prevedeva una strategia semplice ma estremamente brutale: annientare completamente la base avversaria tramite azioni rapide, ottenendo la supremazia nei cieli grazie alle portaerei. Se l’attacco fosse andato a buon fine, il Giappone avrebbe creato una barriera difensiva con altre isole del Pacifico che neanche gli Stati Uniti al massimo della loro potenza avrebbero potuto valicare, concedendo ai giapponesi la possibilità di controllare molti tra i territori occupati durante la prima fase del conflitto.

Per sviluppare il suo progetto, l’ammiraglio Yamamoto ordinò a un ristretto gruppo dello Stato Maggiore di studiare un attacco di sorpresa contro Pearl Harbor, perché sapeva che solo un colpo schiacciante assestato alla principale formazione navale avversaria avrebbe garantito al Giappone una facile conquista dei suoi obiettivi nell’Asia sud-orientale. Nell’agosto del ’41 l’ordine dell’attacco fu fornito da alcune operazioni militari sotto la guida di Yamamoto, il quale era riuscito a convincere anche i colleghi più dubbiosi sul suo progetto. Alcuni di essi infatti lo trovavano rischioso, rimproverandogli l’eccessivo indebolimento del corpo di spedizione destinato al Sud-Est asiatico e soprattutto le esercitazioni intense cui aveva sottoposto i suoi equipaggi di volo.

Agli ordini dell’ammiraglio di squadra Chuichi Nagumo vi erano:
– il gruppo di assalto, formato da sei portaerei con a bordo complessivamente 450 apparecchi al comando dello stesso Nagumo;
– il gruppo di appoggio, composto da due incrociatori da battaglia: due corazzate e due incrociatori pesanti agli ordini dell’ammiraglio Mikava;
– il gruppo esplorante dell’ammiraglio Omori, con un incrociatore leggero, nove cacciatorpediniere e 28 sommergibili;
– otto petroliere incaricate di rifornire la squadra in navigazione.

Alle 8.40 il primo attacco nipponico era terminato e il primo gruppo si ritirava con il messaggio di Fuchida a Nagumo, che sanciva il successo alla missione e dava il via libera al secondo attacco, destinato a completare l’opera di distruzione. Il bilancio delle operazioni, dopo due ore di continui attacchi, era impressionante: delle 96 navi americane alla fonda nella base, diciotto erano fuori combattimento, cinque risultavano distrutte, quattro arenate o colate a picco (anche se in seguito sarebbero state recuperate), nove gravemente danneggiate.

Sui campi di aviazione di Oahu erano stati distrutti 188 aerei americani e altri 159 danneggiati; le perdite umane degli Stati Uniti ammontavano a 2.403 morti e 1.178 feriti. Secondo i calcoli di Tokyo i giapponesi avevano perduto 29 aerei, tra cui 9 caccia, 15 bombardieri e 5 aerosiluranti, un grande sommergibile e tutti e cinque i sottomarini più piccoli. I morti da parte nipponica erano 64, di cui 55 aviatori. Non si seppe mai quanti fossero stati i marinai a bordo del grande sommergibile.

Samuel Eliot Morison scrisse: «Benché messi spesso in guardia contro tale modo di pensare, i militari sono piuttosto inclini a preparare i loro piani in base alle intenzioni che attribuiscono al nemico, invece di studiare attentamente ciò che rientra nel quadro delle probabilità e tenerne conto. Poco importa quanto è stato detto loro nelle scuole: essi si concentrano sull’idea che si fanno delle probabilità, scartando tutte le eventualità che non quadrano con quelle. Così avvenne esattamente a Pearl Harbor».

Anche se il mistero dell’attacco a sorpresa di Pearl Harbor non è stato ancora svelato, resta il fatto che il raid segnò una svolta fondamentale nella Seconda Guerra Mondiale, per il gran numero di vittime che provocò l’entrata in guerra di una potenza, gli Stati Uniti, destinata a mutare profondamente l’esito finale del conflitto.

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