Senatori a vita. Tra dottrina, critiche e nuove nomine


A seguito delle modificazioni introdotte con la legge costituzionale n. 2 del 9 febbraio 1963, l’articolo 57 della Costituzione italiana definisce un numero fisso per i membri del Senato della Repubblica italiana: sono 315, di cui la maggior parte (309) eletti su base regionale (in proporzione alla popolosità delle regioni stesse) e i rimanenti (6) nella circoscrizione Estero. A questi, tuttavia, vanno aggiunti i cosiddetti “Senatori di diritto e a vita”, carica onoraria che, come evidenzia l’art. 59 comma 1, spetta – salvo rinunzia dei diretti interessati – a chi ha rivestito il ruolo di Presidente della Repubblica.

Lo stesso Presidente inoltre, nell’arco del suo mandato «può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» (art. 59 comma 2). Non è ancora stato del tutto chiarito se con quel «cinque cittadini» la Costituzione voglia indicare il numero massimo di senatori nominabili per ciascun mandato (prima interpretazione) o il numero massimo di senatori a vita ammissibili in Parlamento (seconda interpretazione).

Al momento, i senatori di diritto e a vita in carica sono quattro, tre dei quali ultranovantenni: il Presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi (92 anni), i due ex Presidenti del Consiglio Giulio Andreotti (94 anni) ed Emilio Colombo (92 anni), e il professor Mario Monti (69 anni), nominato da Giorgio Napolitano (unica nomina del settennato) in funzione della formazione di un governo tecnico nel 2011.

Ma qual è il ruolo concreto, e quali sono i poteri di questi membri del Senato che, contrariamente ai loro omologhi,  non sono «eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori»? A conti fatti, hanno lo stesso diritto di voto dei loro colleghi, un diritto che usano tuttavia con discrezione, spesso in appoggio del governo in carica, ma che – complici i labili equilibri politici – diventa talvolta determinante. Così è stato, ad esempio, in alcuni dei momenti più delicati della XV legislatura (Prodi II, iniziata nel 2006 e terminata nel 2008), in cui divennero fondamentali per la tenuta dell’Esecutivo. E determinanti, curiosamente, rischiavano di essere anche nel 1994, quando degli otto senatori (su undici) che parteciparono al voto di fiducia al primo governo Berlusconi ben 3 votarono contro (Giulio Andreotti, Francesco De Martino e Leo Valiani) mentre due si astennero (Giovanni Spadolini e Paolo Emilio Taviani: l’astensione al Senato vale come voto contrario).

Prese di posizione, queste, che in più occasioni hanno sollevato critiche da parte del mondo civile, politico e accademico. Se dal suo blog Beppe Grillo ne ha di recente proposto l’abolizione scrivendo «È una promozione di carattere feudale, baronale, come ai tempi dei valvassini e dei valvassori», la Lega Nord ha perfino avanzato una proposta di legge costituzionale (prima firmataria Manuela Dal Lago) per abrogare il comma 2 dell’articolo 59. Nel 2006, invece, era stato addirittura un senatore di diritto, Francesco Cossiga, a presentare le sue dimissioni denunciando il ruolo anacronistico di tale figura. Il Senato, chiamato a votare con voto segreto (come prevedono i regolamenti quando si tratta di un giudizio su persone), respinse a larga maggioranza le dimissioni.

Ed è forse per evitare ulteriori polemiche che, nei sette anni del suo mandato, il Presidente Giorgio Napolitano ha evitato – ad eccezione del già citato Mario Monti – la nomina di nuovi senatori a vita, contribuendo così a ridurre (complice la morte di Oscar Luigi Scalfaro, Sergio Pininfarina e Rita Levi Montalcini) la loro rappresentanza parlamentare. Ciononostante, si è più volte mostrato convinto dell’importanza simbolica dell’Istituto, dichiarando recentemente di non voler nominare altri senatori vista l’impossibilità di esercitare con la dovuta ponderazione e serenità questa prerogativa.

Come lui, anche Gronchi e Leone nominarono un solo senatore a vita, mentre Scalfaro – caso unico nella storia repubblicana – decise di non operare alcuna nomina. Tutti gli altri Presidenti, invece, non rinunciarono a questa loro prerogativa: se Segni e Saragat nominarono rispettivamente tre e quattro senatori a vita, Pertini, Cossiga e Ciampi ne indicarono cinque ciascuno (tra le nomine di quest’ultimo anche Giorgio Napolitano). Un discorso a parte merita il primo Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, le cui nomine furono addirittura otto, tre delle quali per sostituire Trilussa e Guido Castelnuovo (nel frattempo deceduti) e Arturo Toscanini (dimessosi il giorno dopo l’investitura).

Da mesi, con l’avvicinarsi dell’investitura del dodicesimo Presidente della Repubblica, si parla dell’eventuale nomina di nuovi senatori a vita. In realtà, con il ritorno di Giorgio Napolitano tra gli scranni di Palazzo Madama (nel nuovo ruolo di Presidente emerito) il numero totale raggiungerebbe la fatidica quota di 5 senatori: il tetto massimo, nell’ottica della seconda interpretazione dell’articolo 59 comma 2. Qualora tuttavia il nuovo Capo dello Stato intendesse abbracciare la prima interpretazione del suddetto comma, e decidesse quindi di procedere con nuove nomine, si troverebbe a dover scegliere tra un nugolo di nomi che da tempo si rincorrono negli ambienti della politica. Se si moltiplicano gli endorsement (bipartisan, da Giorgia Meloni a Fausto Bertinotti) per Marco Pannella, suggerimenti arrivano anche per Gianni Letta, Emanuele Macaluso, Umberto Veronesi, e Eugenio Scalfari. Ma anche per gli scienziati Carlo Rubbia, Riccardo Giacconi, Mario Capecchi e Margherita Hack. E poi per Carla Fracci, Dario Fo, Giorgio Armani e Franco Marini. La lista è lunga, lunghissima, e potrebbe allungarsi ancora di più. Ma in Senato non c’è spazio per tutti. Almeno per il momento.

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