Immigrati e diritto di voto: una nuova frontiera?


A fine 2010 l’Italia contava poco meno di 61 milioni di abitanti, di cui circa 4,5 milioni di immigrati regolari (dati Istat). Il loro numero è quasi raddoppiato a partire dal 2005 ad oggi, arrivando a rappresentare all’incirca il 7,5% della popolazione totale, con tassi in continua crescita. Sulla base di questi numeri in continuo aumento – che non tengono conto di irregolari e clandestini, su cui è impossibile avere dati certi – è opportuno riflettere sulla possibilità di concedere una qualche forma di diritto di voto agli stranieri regolarmente residenti in Italia.

Di questi 4,5 milioni, almeno 1 è costituito da minori che oggi vanno a scuola con bambini/adolescenti italiani, che vivono e crescono nel contesto culturale italiano e da esso sono influenzati, ed è sempre all’interno di questo che un giorno diventeranno adulti, faranno figli a loro volta, magari sposandosi con italiani/e, condividendone così i problemi di tutti i giorni.

L’esercizio del diritto di voto è un passaggio fondamentale per dare efficacia e sostanza alla partecipazione dei migranti alla vita pubblica, oltre a rappresentare un potenziale strumento d’integrazione.

In Italia il dibattito sulla possibilità di allargare il diritto di voto agli immigrati è in corso da circa 15 anni: fin dalla promulgazione della legge Turco-Napolitano (1998), infatti, questa possibilità è in discussione, in particolare per le elezioni locali. A causa però della forte opposizione di alcuni partiti dell’area di centro-destra, tale iniziativa legislativa non ha mai trovato attuazione.

L'Italia sono anch'ioEppure qualcosa negli ultimi 15 anni si è mosso, soprattutto grazie alle iniziative messe in atto proprio degli enti locali, come i Comuni, che per rendere possibile la partecipazione alla vita pubblica da parte degli immigrati hanno realizzato progetti come le “consulte degli immigrati” o il “consigliere straniero aggiunto”. Questi istituti rappresentano un’occasione di visibilità, di espressione dei bisogni e delle esigenze da parte dei migranti, oltre che di influenza sulle scelte politiche istituzionali.

Ovviamente il dibattito è molto acceso in tutta Europa: dall’Unione Europea sono arrivate indicazioni sul da farsi, già a partire dalla ratifica della Convenzione Europea di Strasburgo (1992), che impegnava gli Stati firmatari a favorire la partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, parlando espressamente di diritto di voto amministrativo.

Esaminando le raccomandazioni successive, emerge inizialmente una chiara preferenza per la concessione del diritto di voto ai cittadini comunitari. Ma, a partire dalla metà degli anni 2000, è altrettanto evidente la convinzione della necessità di “aprirsi” anche ai cittadini di Paesi terzi rispetto all’Ue.

La questione in Italia è particolarmente complessa perché un cittadino straniero, per acquisire la cittadinanza per naturalizzazione (che dà il diritto di voto), deve attendere per legge almeno dieci anni. Ciò significa che per più di un decennio si vede escluso dalla possibilità di partecipare alla vita politica della comunità in cui vive.

Analizzando la questione ad un livello più ampio, l’espansione dei diritti concessi agli stranieri mette in discussione il concetto di appartenenza così come concepito all’interno dello Stato-Nazione. Ed è proprio per questo che negli ultimi anni lo Stato si è opposto a tutte quelle iniziative, sorte a livello locale e regionale (particolarmente attive Emilia-Romagna e Toscana), attraverso cui si è tentato di seguire la tendenza europea che si va consolidando.

Accanto a queste considerazioni, va notato che il calo di partecipazione politica registrato in Italia negli ultimi anni è dovuto – tra l’altro – al fatto che i cittadini non si sentono adeguatamente rappresentati dagli esponenti delle istituzioni. Cosa impedisce allora di pensare a future elezioni in cui votare un Mohamed o un Abdul, un Boris, o ancora un Chuck o un Kevin, piuttosto che un Silvio, un Mario o un Pierluigi, se il candidato conosce i problemi delle persone comuni e lavora per tutelare il loro interesse anziché il proprio o quello di una o più lobby?

Dopo vent’anni in cui nulla sembra essere cambiato, perché non aprirsi a qualcosa, o meglio a qualcuno, di nuovo? Chi l’ha detto che sarebbe per forza peggio di quello che già abbiamo?

1 comment

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  1. Chiara Tadini

    Sarebbe bello dire “strano che l’Italia non si adegui alla tendenza europea che si va consolidando”. Purtroppo strano non è. Bell’articolo!

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