Democrazia in vendita: il voto di scambio


Tutto è in vendita, anche la democrazia. Basta sapere a chi rivolgersi e il gioco è fatto: 50 euro a voto e posto in Parlamento assicurato. Sembra incredibile, ma è la realtà: inchieste sempre più numerose della magistratura dimostrano che il voto di scambio diventa sempre più decisivo nel determinare gli equilibri della politica italiana.

Wikipedia definisce il voto di scambio come «il voto dato regolarmente da un elettore, ma non motivato da scelte politiche frutto di riflessioni sincere e disinteressate, bensì corrotto da qualche tornaconto ricevuto da parte di chi si candida o chi per lui».

Il condizionamento del voto può avvenire in diversi modi. Il più semplice è anche il più diretto: un candidato può promettere un posto di lavoro o un favore in cambio della preferenza, come spesso fa Antonio Albanese nella parte di Cetto La Qualunque.

Ma qui finisce il divertimento. Perché il voto di scambio, già estremamente dannoso in questa sua prima forma, ha oramai assunto modalità e proporzioni sistematiche grazie alla mediazione assicurata dalla criminalità organizzata.

Oggi non è più solo il singolo uomo politico a promettere qualcosa in cambio di un voto al singolo elettore: interi blocchi di voti, in alcuni casi decine di migliaia, sono venduti al miglior offerente dai clan mafiosi.

Il più recente esempio in questo senso è la vicenda dell’assessore regionale lombardo Domenico Zambetti (Pdl), arrestato lo scorso 10 ottobre con l’accusa di aver comprato 4mila voti dalla ‘ndrangheta al prezzo di 200mila euro.

Pagare 50 euro a voto è bastato a Zambetti per assicurarsi un posto nella Giunta dell’ex presidente Formigoni? Neanche per idea, visto che l’ormai ex assessore avrebbe assicurato ai due clan coinvolti nell’inchiesta anche diversi favori (assunzioni in enti pubblici di parenti dei mafiosi, appalti e lavori concessi a ditte controllate dalla ‘ndrangheta).

Ilda Boccassini ha sottolineato l’importanza di questa inchiesta, che ha fatto emergere per la prima volta in Lombardia la sistematica compravendita di voti da parte della criminalità organizzata. Una pratica più consolidata di quel che si potrebbe pensare, tanto che uno dei due referenti mafiosi di Zambetti – Eugenio Costantino del clan Mancuso di Palmi – al telefono dice «io sto facendo parecchie campagne elettorali, e ti dico che ne sto vedendo di tutti i colori. Io per l’assessore ho fatto la campagna elettorale per le provinciali, per quelle del comune di Milano, perché dove ci sono mi chiamano ormai».

Un quadro reso ancor più nitido dalla viva voce degli intercettati:

Ma il caso Zambetti, per quanto eclatante, non è l’unico. A pochi mesi dal suo insediamento, infatti, anche il consiglio regionale siciliano è stato macchiato dal primo avviso di garanzia: destinatario Giuseppe Sorbello (Udc), indagato per voto di scambio aggravato dalla procura di Catania.

Una pratica bipartisan, il voto di scambio, in particolare al sud: a Rende (Cosenza) l’ex sindaco Umberto Bernaudo e l’ex assessore comunale Pietro Paolo Ruffolo – entrambi del Pd – sono stati arrestati lo scorso novembre con l’accusa di «aver finanziato con risorse pubbliche la cooperativa Rende 2000», riconducibile al boss della ‘ndrangheta Michele Di Puppo, in cambio di voti per la corsa alle provinciali 2009.

L’urgenza del problema è dettata dalla constatazione di un fatto evidente: la consuetudine del voto di scambio non è limitata a una precisa area geografica, ma si è ormai diffusa – con l’aggravante mafiosa o meno – da nord a sud, passando anche per il centro del Paese, come ben sa la magistratura della Repubblica di San Marino.

Che fare dunque per arginare questo dilagante fenomeno, che mina alla base la facoltà dei cittadini di scegliere democraticamente i propri amministratori? Un primo argine è stato posto nel 2008, quando il governo Prodi II ha varato un decreto legge per vietare l’uso dei telefoni cellulari all’interno dei seggi.

Che c’entra questo provvedimento con il voto di scambio? Una fotografia della propria scheda elettorale è la miglior prova, per l’acquirente di turno, che il cittadino ha rispettato i patti votando secondo le indicazioni prestabilite. Un modus operandi talmente radicato da rimanere in vigore persino dopo l’approvazione della legge appena citata.

Quanto fatto finora, dunque, non è stato sufficiente ad arginare realmente la pratica del voto di scambio. Per contrastare efficacemente il problema, o almeno dotare la magistratura di strumenti per operare in tal senso, è necessario secondo la Fondazione Progetto Legalità di Palermo riformare l’articolo 416 ter del Codice Penale, quello che attualmente punisce il reato di scambio elettorale politico-mafioso.

La modifica proposta della Fondazione permetterebbe di allargare il reato punito dal 416 ter, includendo non solo la vera e propria compravendita di voti in denaro, ma anche gli “scambi” in senso lato, come le promesse di appalti, assunzioni o altri favori in cambio di preferenze elettorali.

Chi si occupa quotidianamente di indagini sulla criminalità organizzata stima che l’incidenza del voto di scambio di matrice mafiosa sia quantificabile in un 5% delle preferenze nelle regioni del nord. Una cifra spaventosa, se si pensa che equivale sostanzialmente alla percentuale che i sondaggi attribuiscono a partiti come Sel, Udc o Lega Nord.

Le inchieste degli ultimi anni sono un segnale inequivocabile della necessità immediata di agire per contrastare il voto di scambio. Il compiuto esercizio del diritto di voto è possibile solo se la competizione elettorale si svolge nel pieno della legalità: obiettivo che nel contesto italiano passa necessariamente dal deciso contrasto della criminalità organizzata.

2 Commenti

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  1. Letizia

    leggendo questo articolo ho avvertito quanto questo problema sia lontano da chi ne scrive. mi spiego meglio: la trattazione non tiene conto che quei voti “comprati” non bevo indignarci in quanto elettori, ma in veste di uomini perché significa che c’è qualcuno così indigente da vendere, anche per soli 50 euro, un diritto costituzionale. quando non si ha da mangiare è difficile riconoscere il valore del voto (soprattutto visto l’attuale clima politico).
    ecco perché troppo spesso è la criminalità organizzata a gestire questa compravendita. senza luoghi comuni, nel mezzogiorno dove la crisi c’era già 40 anni, quei 50 euro vogliono dire che: “oggi mangiano e forse dopo avrò un lavoro”. come possiamo non sentirci colpiti da questa povertà economica e quindi culturale.
    quando pensiamo a quei voti comprati non dimentichiamo mai che c’è chi li ha venduti ed è lo stesso che è già stato abbandonato da quella politica e quella società civile che oggi si danno battaglia per assicurarsi ancora una vota(anche grazie a quei voti) una poltrona in più.

    • Luca Rasponi

      Ti ringrazio per questo commento che sottolinea un aspetto della questione che nel mio articolo avevo completamente tralasciato. Il mio pezzo è scritto dal punto di vista di chi osserva la transazione tra il “grossista” mafioso e l’acquirente di voti, non da quello di chi il voto lo vende. E in ogni caso non è frutto di un’inchiesta o di esperienza diretta, per cui chi lo ha scritto è oggettivamente lontano dal problema.

      Quanto dici è vero: il potere economico (ancor prima che militare) della criminalità organizzata sta proprio lì dove manca quello dello Stato, incapace di offrirsi come alternativa appetibile alla mafia ancor prima che di contrastarla efficacemente.

      Questo è un problema che riguarda il crimine organizzato a 360 gradi: i ragazzi diventano mafiosi perché spesso la sola alternativa è la povertà; le persone si rivolgono ai boss perché spesso sono gli unici a offrire loro un lavoro, o comunque una qualche forma di sostentamento economico. Per questo, qualsiasi azione di matrice mafiosa mi indigna come uomo prima che come cittadino, perché si basa sulla sopraffazione del più debole e sulla privazione dei diritti altrui.

      Il voto di scambio, però, mi indigna anche e soprattutto in quanto elettore. Questo perché credo che anche il tuo punto di vista, considerato separatamente dal resto, sia parziale. Perché non tutti coloro che vendono il proprio voto lo fanno per non soffrire la fame: c’è chi lo fa per comprarsi il cellulare nuovo (non esattamente un bene di prima necessità), semplicemente perché considera il voto meno importante di un qualsiasi bene materiale.

      È chiaro che i valori etici e morali vengono dopo le necessità basilari («La filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari», diceva Aristotele), però io credo che ognuno di noi debba capire quanto della propria dignità è disposto a sacrificare per continuare a sopravvivere in una situazione che comunque, domani, non gli offrirà niente di meglio.

      Ovvio che una simile disaffezione per la politica e le istituzioni sia in gran parte dovuta al pessimo operato delle stesse, in particolare nei confronti del Sud. Ma non mi risulta che nella Storia ci sia stata qualche rivoluzione partita dall’alto; quindi se vogliamo provare a cambiare le cose forse dobbiamo iniziare a renderci conto che un voto speso per una persona seria vale più di 50 euro per campare fino a domani e un pungo di promesse che non verranno mai mantenute.

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