Memoria e oblio nell’opera di Christian Boltanski


Christian Boltanski è un artista francese nato nel 1944 da padre ebreo di origine ucraina, motivo per cui si definisce figlio dell’Olocausto e nelle sue opere evoca spesso in maniera più o meno diretta l’orrore della guerra e dello sterminio. Alla fine degli Anni Sessanta inizia a sperimentare un linguaggio eterogeneo che si avvale di oggetti fortemente evocativi quali fotografie, filmati, frammenti autobiografici, candele, lampade e relitti. La ricorrente e martellante presenza di tali elementi contribuisce a creare percorsi multi-sensoriali, emotivamente coinvolgenti, grazie ai quali il visitatore si trova di fronte a temi esistenziali profondi: la morte, l’assenza, l’identità negata, il trascorrere fagocitante del tempo, la memoria labile e nebulosa.

Numerosi sono i memoriali di persone scomparse realizzati da Boltanski, primo tra tutti il Museo per la Memoria di Ustica a Bologna. Il drammatico altalenarsi di ricordo e oblio è infatti una domanda cruciale per l’artista: l’individuo lascia un segno tangibile del suo passaggio nel mondo attraverso oggetti quali vestiti e fotografie, ma questi spesso si riducono ad essere una traccia sbiadita e vaga dei loro antichi possessori. Dunque per Boltanski la memoria esiste e assicura una continuità, tuttavia è alquanto aleatoria e non può salvare totalmente l’uomo dal vortice dell’oblio.

Questo concetto apparentemente contorto trova una chiarificazione in diverse opere, ad esempio nell’installazione del 1994 intitolata Volti sgranati degli allievi della scuola ebraica di Grosse Hamburgerstrasse di Berlino, 1939. Qui Boltanski altera le fotografie dei ragazzi fino a quando le figure diventano un alternarsi sfumato di luci e ombre. La memoria è perciò illusoria poiché i personaggi, spazzati via dal tempo e dalla violenza della storia, hanno inutilmente affidato ad un’immagine la persistenza della loro immagine-identità. Per questo motivo secondo l’artista si muore due volte: quando sopraggiunge la morte fisica e quando subentra la morte della memoria, cioè quando nessuno è più in grado di associare il nostro nome ad una fotografia o ad un oggetto legato a noi.

Si pensi all’installazione Monte di Pietà, realizzata nel Palazzo Branciforte a Palermo. L’edificio accolse nel XIX secolo il Monte dei Pegni di Santa Rosalia, istituzione che raccoglieva pegni non preziosi che la povera gente depositava in cambio di denaro liquido immediato. L’interno del palazzo conserva le scaffalature lignee numerate che davano un ordine razionale e merceologico ad una serie di oggetti appartenuti ad una folla misera e anonima, la cui unica eco era il nome sulla ricevuta di pagamento. Boltanski tenta di rievocare la condizione esistenziale di questi oggetti in attesa, sradicati dal loro contesto e privati dell’identità e dei ricordi che i possessori avevano attribuito loro. Ecco perché, come spiega il curatore Sergio Troisi, gli abiti vuoti ammucchiati per terra o fluttuanti nell’aria richiamano qui l’assenza del corpo che li aveva abitati e diventano effigie di un’identità perduta nei meandri della memoria. In un’intervista rilasciata alla Biennale di Venezia 2011, parlando del padiglione francese teatro della sua opera Chance, Boltanski riflette sul legame tra identità-caso-memoria:

«Penso che ciascuno di noi sia unico e per questo importante, nello stesso tempo ciò che è più importante non siamo noi in quanto individualità, ma è la continuazione della vita. Tra qualche anno in questa sala ci sarà un altro artista che discuterà con dei conservatori e dei critici. Non sarò io, né lei, ma l’importante è che la discussione prosegua. Non siamo sostituibili, ma saremo sostituiti»

 L’idea della Vita Umana che si rigenera e prosegue nonostante le tragedie della storia e le sofferenze di ognuno è il riscatto alla triste consapevolezza della morte e dell’annullamento individuale. Questo dualismo di amarezza e speranza si riscontra in Personnes, ideata in occasione di Monumenta 2010 al Grand Palais di Parigi e proposta con leggere variazioni all’Armory di New York e all’Hangar Bicocca di Milano. A Milano, nel buio della navata centrale dell’Hangar, un intenso fascio di luce e il suono ritmico di battiti cardiaci (parte del progetto Les Archives du coeur) accompagnano il visitatore fino a un cubo di vestiti che vengono afferrati e spostati casualmente da una gru con una benna all’estremità. Si tratta di una metafora della vita e della fine di essa: il cammino accecante conduce alla gru-morte; gli uomini si trovano dinanzi al simulacro di loro stessi (i vestiti-cenci) e la benna rappresenta la mano di Dio che li afferra con apparente casualità.

Alcuni hanno visto in questi abiti la rappresentazione delle vittime della Shoah, ma Boltanski afferma che egli ha voluto trasmettere l’idea generale della casualità della morte. Allo stesso tempo aggiunge che questa, come molte sue altre realizzazioni, è un’opera aperta perché non è orientata su un solo punto e quindi lascia ciascuno libero di scoprire qualcosa in più. La curatrice Chiara Bertola, per l’appunto, vi ha trovato uno stimolo positivo: alla fine della visita, ciascuno era invitato a prendere uno dei vestiti e a portarlo con sé per utilizzarlo e conferirgli una nuova vita e una nuova identità. Se la memoria degli individui sbiadisce nel tempo, la loro essenza impalpabile e anonima continua a sopravvivere nella trama dei tessuti e, attraverso gli abiti, entra a far parte dell’infinito ciclo di rigenerazione degli esseri umani. La sfida di preservare il ricordo di un’identità specifica nel tempo è inutile, però la memoria, pur nella sua mutevolezza e imperfezione, ha il pregio di essere un labile fil rouge che assicura la continuità nella vita.

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