Conflitto israelo-palestinese: la politica di Obama


Maggio 2009. Questa è la data del primo incontro ufficiale tra il neo eletto presidente Barack Obama e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il confronto ha luogo alla Casa Bianca e, durante la conferenza stampa nello Studio Ovale, Obama fa una richiesta ben precisa, al fine di poter avviare delle trattative di pace costruttive che pongano fine al conflitto israelo-palestinese: bloccare la costruzione di insediamenti illegali nei territori occupati palestinesi.

Dopo poche settimane dalla visita del primo ministro israeliano, lo stesso Obama incontra colui che diverrà il suo interlocutore per la controparte palestinese: Mahmoud Abbas, 77 anni e una vita spesa a lottare per l’indipendenza del proprio Paese. Dopo aver abbandonato il partito di Fatah guida ora un movimento nazionale palestinese.

Entrambi gli incontri sono preludio al discorso all’al-Azhar University al Cairo, che il presidente americano pronuncia nel giugno dello stesso anno. Se da una parte viene richiesto ai palestinesi di abbandonare la strada della violenza e l’incitamento all’odio verso Israele, dall’altra, per la prima volta, viene pronunciata la parola “occupazione” in riferimento ai territori della West Bank confiscati durante la guerra del ’67.

Nel novembre 2009 Netanyahu muove un primo passo verso l’apertura di nuove trattative di pace: congela per 10 mesi la costruzione degli insediamenti, fatta eccezione per quelli di Gerusalemme Est: la Città Santa viene infatti considerata da Israele la propria capitale. A questo proposito, lo stesso primo ministro israeliano, in occasione della visita a Tel Aviv del vice presidente americano Biden, afferma che «gli ebrei hanno costruito Gerusalemme 3mila anni fa e gli ebrei la stanno costruendo anche oggi. Gerusalemme non è un insediamento, ma la nostra capitale».

Il primo settembre 2010 si aprono le trattative e Obama, rivolgendosi all’Assemblea Generale dell’Onu, promette che l’anno successivo un nuovo membro sarebbe entrato a far parte delle Nazioni Unite: uno stato palestinese sovrano e indipendente. Ma le speranze del presidente americano ben presto vengono spente: a fine mese la costruzione degli insediamenti israeliani riprende e le trattative si interrompono.

Questo fallimento segna un’inversione di tendenza nella politica adottata dagli Stati Uniti nella risoluzione del conflitto. Obama nel gennaio 2011 impone il suo veto contro la risoluzione relativa agli insediamenti israeliani presentata da Abbas al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il 19 maggio il presidente americano dichiara che i confini del futuro Stato palestinese dovranno rispettare gli accordi del ’67. Si mostra però inamovibile nell’affermare che ogni tentativo di delegittimare Israele di fronte alle Nazioni Unite fallirà e ribadisce il diritto dello Stato israeliano a difendersi.
Uno Stato palestinese demilitarizzato che si assuma la responsabilità di garantire la sicurezza dello Stato confinante: solo a queste condizioni Israele, secondo Obama, potrà ritirare il suo esercito dai territori occupati.

Il 21 settembre, durante la visita a Washington di Benjamin Netanyahu, il presidente americano non pronuncia mai le parole “occupazione” e “insediamenti”. La retorica del discorso all’università del Cairo sembra solo un lontano ricordo.

Due giorni dopo il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Abu Mazen, davanti all’Assemblea Generale dell’Onu avanza la richiesta di un riconoscimento formale dello Stato palestinese. Gli Stati Uniti pongono il veto, convinti che i processi di pace possano essere minacciati da una tale risoluzione, giudicata ancora troppo prematura.

La sicurezza di Israele risulta essere quindi la priorità assoluta per gli Stati Uniti e tale posizione viene ribadita anche nel discorso alla convention democratica del settembre scorso in vista delle elezioni presidenziali in programma tra meno di due settimane.

La stessa convention durante la quale i delegati democratici hanno approvato con un voto per acclamazione il reinserimento della definizione “Gerusalemme capitale d’Israele” nella piattaforma del partito, dopo che in un primo momento era stata omessa provocando l’ira del candidato repubblicano Romney, che aveva definito una tale mancanza «vergognosa».

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