Nuove emigrazioni: intervista a due “cervelli in fuga”


«All’estero mi sono tolto soddisfazioni che in Italia mi sarei solo potuto sognare». Manfredi ha 28 anni, vive in Germania ed è uno dei sempre più numerosi giovani che, messo in valigia il titolo di studio – nel suo caso una laurea in Scienze politiche, indirizzo marketing e comunicazione d’impresa – decidono di “fuggire” all’estero in cerca di migliori opportunità. E per i quali l’idea di un ritorno in patria è tutt’altro che appetibile. «Nemmeno per sogno» sembra fargli eco dall’Australia Daniela, 29 anni e una laurea in geologia. «Mi bastano i racconti quotidiani di chi è rimasto in Italia a pregare di avere il lavoro anche la settimana seguente e le esperienze avute con i datori di lavoro italiani: non dico che qui i raccomandati non esistano, ma almeno chi lavora sodo viene premiato e posso avere una vita dignitosa».

Parole che sembrano rimbalzare fino al cuore produttivo dell’Europa: «Nel Belpaese – spiega Manfredi – sei uno dei tanti; se invece riesci a concludere qualcosa di buono all’estero, per magia diventi “l’italiano all’estero che ce l’ha fatta”, quel mix di destrezza e capacità di cui giornali amano tanto scrivere. Eppure sei la esattamente la stessa persona che eri prima di partire, con le stesse qualità, le medesime capacità».

L’aspirazione a una piena realizzazione professionale che premi gli sforzi compiuti in tanti anni di fatiche sui libri e a una retribuzione proporzionata all’alto livello di competenze raggiunto è una delle motivazioni che più spesso vengono date dai giovani che, dopo la laurea, decidono di espatriare. Ma non c’è solo la ricerca di un’occupazione alla base di questa scelta. Chi parte, puntualizza Daniela, è mosso anche «dal desiderio di vedere una nuova terra, una nuova cultura. Una specie di “sete d’avventura”», che Manfredi descrive come «il bisogno di un cambiamento, di dimostrare a se stessi di essere capaci, all’occorrenza, di fare i bagagli e ambientarsi in un posto diverso».

Stimoli che l’Italia non sembra più in grado di dare ai giovani. Le cifre diramate dall’Istat nei giorni scorsi, del resto, sono impietose: secondo l’Istituto, nel primo trimestre 2012 erano 304mila i “dottori” senza occupazione, il dato più alto dall’inizio delle rilevazioni (2004), con un incremento che rispetto allo stesso periodo del 2011 è stato del 41,4%. Un clima, quello che si respira nel nostro Paese, che Manfredi definisce “deprimente”, sottolineando come «parlare con i miei coetanei e vederli tutti depressi e demotivati, senza aspettative, mai propositivi, o accendere la televisione e sentire solo notizie su come l’Italia stia lentamente precipitando nel baratro» abbiano influito in modo significativo su una decisione che per molti è definitiva.

«Quando sono emigrata in Australia – racconta Daniela – sapevo che non sarebbe stata una scelta provvisoria. L’avevo in mente da tre anni, fino a quando un mio amico, già in Australia, mi ha chiamata dicendomi che la compagnia per la quale lavorava stava assumendo: ho fatto un rapido calcolo e il giorno dopo ho comprato il biglietto per il volo». Un mix di ponderatezza e istinto che negli ultimi anni ha spinto lontano dai “patrii lidi” migliaia di giovani italiani: le cifre diffuse dal blog La Fuga dei Talenti parlano di circa 60mila espatri ufficiali di under 40 ogni anno, con un forte incremento dei flussi dalle regioni del centro-nord e un sostanziale raddoppio dei laureati tra il 2000 e il 2009.

Per Daniela, come per molti altri, partire ha avuto il sapore della liberazione: «Quando l’aereo è decollato ho avuto una sensazione di euforia e di benessere, la convinzione che avessi fatto la scelta giusta. Stranamente, anche la sensazione di qualcosa di abitudinario, o quasi». E se è possibile che qualche dubbio affiori, non mancano le motivazioni per stringere i denti e superarlo: «I ripensamenti ci sono, e non solo nel corso del viaggio» ammette Manfredi. «Alle prime difficoltà è normale che uno possa chiedersi “chi me l’ha fatto fare?” e in quei momenti è forte la tentazione di tornare sui propri passi. Poi però l’orgoglio prevale».

Molto conta, in questo senso, anche l’accoglienza riservata agli immigrati. «Si dice che la Germania sia aperta allo straniero che vuole darsi da fare e lavorare, ma – continua Manfredi – credo che di vero in questo ormai ci sia ben poco. La comunità italiana in Germania è un mondo a parte e sempre più spesso sento colleghi tedeschi lamentarsi, per esempio, delle orde di giovani spagnoli disoccupati che stanno invadendo il Paese». Va un po’ diversamente se ci spostiamo agli antipodi: «Gli Australiani sono un popolo particolare: sono abituati a vivere in un ambiente ostile, con bestie velenose e pericoli. Devi saper cambiare una ruota, trattare i morsi di un serpente, usare l’estintore, guidare su sterrati bagnati. Quando sei nuovo, ti testano: se dimostri di essere una persona che non ha paura di sporcarsi le mani diventi subito uno di loro».

E rovesciando la prospettiva? Ci sono giovani tedeschi e australiani che guardano all’Italia come a un posto in cui sarebbe bello lavorare, tanto da essere intenzionati a fare le valige e a tentare la fortuna nel nostro Paese? Su questo, anche tra due Paesi così diversi sembra esserci totale accordo. «I tedeschi – conclude Manfredi – ci invidiano per il nostro clima, la nostra cucina, per la spensieratezza e l’allegria, ma fondamentalmente ci considerano per quello che siamo: una meta per le vacanze, al massimo un Paese dove studiare qualche mese, nulla di più». E dall’emisfero sud rincarano la dose: «In Australia – chiude Daniela – l’Italia ha una pessima reputazione per economia e politica. Anche chi ama la cultura italiana pensa al massimo di farci una vacanza, non certo di viverci».

2 Commenti

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  1. Simona

    “In Italia sei uno dei tanti, ma se combini qualcosa all’estero, diventi l’italiano all’estero che ce l’ha fatta …” questa frase riassume benissimo gran parte dei problemi della cultura italiana e allo stesso tempo fa rizzare i capelli. Mi dispiace dirlo ma in Italia ciò che non va è ciò che sta alla base del pensiero di un paese, la cultura! Ci lamentiamo ad esempio del meccanismo delle raccomandazioni, ma ormai è considerato talmente normale dare un posto al parente piuttosto che a un meritevole, che ci trovassimo davanti al misfatto probabilmente lo considereremmo una cosa normale,a volte ho l’impressione che ci lamentiamo spesso ma non ci indignamo mai… in un ambiente che è diventato così altamente competitivo e scolarizzato, non è più possibile!

  2. Claudio Carminati

    L’accettazione supina del “sistema delle raccomandazioni” è evidentemente un problema di tipo culturale, sono pienamente d’accordo, e come tale non può trovare soluzione dall’oggi al domani (la storia della mentalità è la storia della lentezza nella storia, diceva Le Goff). L’Italia ha costruito la propria storia – e anche i propri successi, perché no? – sulla piccola impresa a conduzione famigliare, che dava lavoro a figli, cugini e nipoti, ed è un modo di concepire il “fare impresa” che difficilmente può essere sradicato, per quanto, da volano della crescita economica quale è stato per qualche decennio, ora questo sistema rischi di trasformarsi in una zavorra, nell’ottica di un nuovo concetto di sviluppo basato sulla continua innovazione di processi e prodotti.
    Il cambiamento, perché avvenga, deve essere strutturale, e deve essere stimolato dall’alto, ad esempio incentivando ulteriormente l’autoimprenditorialità innovativa, che consentirebbe a tanti giovani pieni di idee potenzialmente vincenti di mettersi in proprio – svincolandosi così dal sistema delle raccomandazioni, tante volte denunciato – e realizzarle in Italia.

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