Così, per sport


Oggi scrivo un editoriale così, per sport. Quest’espressione è sempre stata usata per indicare un’attività svolta “per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, che è proprio di ogni attività lavorativa, per diletto o per soddisfazione personale, senza alcun interesse pratico o utile economico” (Treccani). Ma nel linguaggio corrente, “dare un esame per sport” si colora anche di una nota di sciatteria, di faciloneria e di svogliatezza. L’esatto opposto di ciò che è lo sport.

Come tutte le aberrazioni di questo mondo, anche la parola sport è finita per indicare il contrario del proprio significato. Lo sport è impegno, sacrificio e costanza. Non è un lavoro e mai una prevaricazione sull’avversario, è prima di tutto una sfida con sé stessi. Manifestazioni come le Olimpiadi riportano alla ribalta atleti che magari non hanno stipendi milionari, ma che con passione e dedizione investono la loro vita in una disciplina. Per stare bene con sé stessi, per relazionarsi con gli altri, per conoscere i propri limiti e scoprire invece che ce la posso fare.

Oltre il 55% degli italiani non pratica sport (Eurobarometer 2010) mentre chi pratica uno sport in maniera continuativa è solo il 20%. Non è che i nostri cugini europei facciano poi tanto meglio, ma i nordeuropei guidano sempre l’avanguardia (Irlanda e Svezia in testa). Ne abbiamo avuto prova anche nelle settimane scorse. Gli irlandesi (per i quali lo sport nazionale è il rugby e non il calcio) si spostano in massa per seguire le partite della loro nazionale e anche quando incassano quattro reti da una Spagna spietata, continuano a saltare, a cantare e a incoraggiare i propri ragazzi. Poi è vero che magari non tutti i loro giocatori in campo  hanno dimostrato grande fair play – vedi Andrew che da espulso calcia un cartellone pubblicitario che colpisce Cesare Prandelli,  ma per i tifosi che li seguono lo spirito è un altro. Per  loro la festa è esserci. Tutto merito di pinte e pinte di birra? Non penso.

Guardiamo a come ci comportiamo noi. Penso sia inutile rimarcare come sia proprio nella nostra indole denigrare nazionale e CT e cercare di sollevare più scandali possibili solo per avere ulteriori capri espiatori.  Sono sempre meno i tifosi italiani che vanno allo stadio nelle partite di girone (siamo sempre stati in minoranza rispetto agli avversari). Poi quando Buffon para i rigori in un attimo tutti quelli che continuano a ritenerlo uno scommettitore si convertono a tifosi della prima ora. Saltiamo subito sul carro del vincitore e tutti a recitare la litania: grande-Italia-viva-super-Mario-mitico-Prandelli-Gigi-santo-subito.

C’è un modo ingenuo di intendere lo sport che abbiamo perso: la passione, il rispetto delle regole e dell’avversario prima che brama del risultato. Sempre più genitori costringono i propri figli a fare sport per vivere attraverso di loro tutti i risultati che non sono riusciti a raggiungere. Dovrebbero insegnare loro a sfidare sé stessi e a relazionarsi con gli altri, ma quello che passa è che lo sport è solo il modo più divertente di fare molti soldi. Perché dobbiamo lasciarglielo credere?

Il nostro paese investe in sport principalmente sotto forma di pubblicità e solo dove questi investimenti possono garantire ritorni da capogiro. Gli impianti sportivi garantiscono posti di lavoro e innalzano la qualità della vita di chi li frequenta con continuità. Non è un caso che le scuole di calcio dei paesi  emiliani colpiti dal terremoto si siano coalizzate per potenziare il loro servizio ai bambini. Lo sport può insegnarci ad affrontare le difficoltà come quelle odierne. Con impegno, sacrificio e costanza. Potremo dire di aver affrontato la crisi, così, per sport.

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