L’identità nazionale costruita allo stadio


In questo momento di crisi delle grandi narrazioni, la globalizzante narrazione del pallone racconta storie che, dividendo, uniscono, plasmando l’identità nazionale. Infatti le identità collettive vengono sempre costruite dalla differenza con qualcos’altro ed ogni incontro tra nazionali è una simulazione di guerra (attaccanti e difensori), dove l’identificazione tra tifoso e squadra è totale.

Il sentimento collettivo proietta gli atleti in una dimensione mitica, iperuranica, eroica; identità nazionali o regionali si compattano impetuosamente nella pratica di tifare, sostenere il proprio esercito, gioire e soffrire per le sue res gestae. La vittoria e la sconfitta hanno un alto valore simbolico, ben testimoniato dalle prime pagine dei quotidiani italiani, dopo la semifinale dominata con la Germania.

Altro esempio, il quarto di finale degli Europei 2012 tra Germania e Grecia era stato definito il “derby dello spread”, in virtù delle divergenti posizioni dei due Paesi in politica economica, che i mass media hanno polarizzato congelando la Germania nel ruolo di intransigente creditrice e la Grecia in quello di debitrice insolvente.

Il match ha ereditato assieme alla contrapposizione politica quella geografica (popolo meditteraneo contro popolo del Centro-Europa), dipingendo sulla tela del quarto di finale un lotta Davide-Golia ad uso e consumo degli spettatori. L’occasione offre il casus belli per provare a portare la palla fuori dal campo verde e ragionare sul sistema di valori extra-calcistici veicolati da questo sport. Quello che il calcio non dice.

Proviamo a farlo tramite due esempi significativi, offerti dalla storia recente.

Nel marzo del 1982 il regime argentino di Leolpoldo Gualtieri, pur di rinfocolare il sentimento nazionalista nelle masse stremate dalla crisi economica, decide di invadere le isole Falkland, appartenenti all’InghilterraLa guerra delle Falkland dura tre mesi e si conclude con la vittoria inglese, che inietta nuova linfa di consenso nazionalista al contestatissimo governo di Margaret Thatcher.

Quando Argentina ed Inghilterra si incontrano il 22 giugno 1986 nei quarti di finale del Mondiale messicano, quella non è una partita. Nonostante il regime sia caduto, la ferita della guerra persa è per gli argentini ancora bruciante, scottante, indimenticabile. E indimenticabili saranno i due gol con cui Diego Armando Maradona abbatte l’avversario: al 51′ l’attaccante del Barcellona insacca tirando un pugno ad un pallone spiovente, consegnando la Mano de Diòs alla storia del calcio, per poi, quattro minuti dopo, regalarle anche una cavalcata inarrestabile che, dopo aver scartato quattro avversari, conclude depositando il 2-0 alle spalle del portiere Shilton. L’identità nazionale è purificata, la vendetta è compiuta, il nemico, umiliato implacabilmente, se ne torna a casa. Maradona stesso ribadisce il valore extra-calcistico della vittoria: «Chi ruba a un ladrone ha cent’anni di perdono». Ma las Malvinas – nome argentino delle Falkland – rimangono inglesi.

Le relazioni tra Iran ed Usa non sono mai state idilliache dal dopoguerra in poi. Le odierne schermaglie, (come il virus Stuxnet), tra Ahmadinejad e l’America rappresentano solo l’ennesimo capitolo di un conflitto decennale, florido di momenti di tensione globale, come la crisi degli ostaggi del 1979, dove 52 cittadini statunitensi vennero sequestrati all’ambasciata americana a Teheran, mai più riaperta.

Beffardo, ai Mondiali francesi del 1998, il destino inserisce Usa ed Iran nello stesso girone. I due Grandi Satana, dopo essersi reciprocamente accusati per anni di essere le anime del terrorismo mondiale, si affrontano sul campo di calcio. La partita del 21 giugno 1998 inizia con scambi di fiori, strette di mano, doni e foto di rito (segni e rituali canonici in ogni accordo diplomatico), ma tutti sono ben consci che un normale fallo potrebbe far esplodere la tensione impalpabile che aleggia nello stadio di Lione. Quando l’iraniano Estili salta tutto solo in mezzo all’aerea di rigore, tutta una nazione salta e segue con lui la parabola discendente della sfera alle spalle di Keller. Il 2-1 finale ha il sapore di una battaglia vinta: nei cuori persiani, l’Iran ha sconfitto un simulacro dell’America.

Ma costruire l’identità nazionale può anche essere l’obiettivo di un’azione pilotata, o almeno stimolata, dai governanti, abili a rendere il calcio vessillo di valori comunitari. Ne è un esempio perfetto il calcio spagnolo, dove la presenza di squadre non considerate propaganda di identità locali o in generale non politicizzate, è pressoché nulla. El clásico, partita tra Barcellona e Real Madrid, moderna riedizione della guerra del Peloponneso, è la partita simbolo della Liga Spagnola. Il blasone di entrambe le squadre, il livello dei giocatori in campo e la reciproca concorrenza nel calciomercato (clamoroso fu l’affaire Di Stefano) non bastano a spiegare una rivalità nata innanzitutto in ambito extracalcistico.

Sulla rivalità tra due regioni tradizionalmente nemiche, la Catalunya e la Castilla, il caudillo Francisco Franco riuscì ad instaurare, nel suo disegno centralista, anche una rivalità politica, dando al Real Madrid (e ai suoi successi internazionali) lo status di rappresentante del potere centrale franchista. Il Barça divenne in quel periodo, dove Franco vietò l’uso della lingua catalana, il titolare dei valori catalani, l’armata custode di una regione a prevalenza indipendentista. I tentativi di debellare questa forma di sopravvivenza dell’identità catalana si concretizzarono nel sostegno franchista all’altra squadra di Barcellona, il cui nome è di per sé molto esplicativo, “Espanyol”.

Proprio le parole di uno scrittore catalano, M. V. Montalbán, sintetizzano al meglio questa riflessione che vi ho proposto: «Non è mai esistito al mondo uno sport nel quale le pulsioni individuali potessero fondersi con quelle di una collettività di qualsiasi forma, paese-città-nazione, come il calcio».

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