Proud to be: Identità tra orgoglio e pregiudizi


Prendi un tifoso, ad esempio. Un tifoso di calcio. Soffre, gioisce, si sente parte di qualcosa, che è più grande di lui e lo rassicura; qualcosa che, anche se indirettamente, evidentemente lo riguarda. Pulsione gregaria la chiamava Freud nel suo libro Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, nel lontano 1921. Si tratta della medesima matrice che – con le doverose e sostanziali differenze – pochi anni più tardi ha creato i totalitarismi, fatti di quei Bourgeois ordinati e accondiscendenti, presi dallo sconforto e timorosi della miseria, come li descriverà Hannah Harendt ne Le origini del totalitarismo del 1951.

Una realtà lontana?

A giudicare dagli ultimi risultati elettorali della Grecia si direbbe di no: Alba d’Oro, il partito neonazista greco prende quasi il 7% e si accaparra 21 seggi in parlamento; Syriza, il partito di estrema sinistra è la seconda forza parlamentare con il 16,8% e tra un mese, quando si tornerà a votare è dato come probabile partito di maggioranza.

Fatti che sembrano suggerire che in tempi di crisi economica l’identità, data da un partito, da un’idea o da un popolo si fa più forte e a volte, più pericolosa.

Partiti con una forte caratteristica identitaria, come lo sono tutti i partiti estremisti, finiscono per diventare fenomeni più vicini al religioso che non al politico. È la prospettiva comparativista della Storia delle religioni ad affermarlo, partendo dal concetto di aria di famiglia proposto da Wittgenstein nella seconda fase della sua opera, quello delle “Ricerche Filosofiche”.

Il senso di appartenenza e l’orgoglio sono meccaniche intrinsecamente e autenticamente umane che fanno riferimento a quel grande bacino antropologico che cade sotto il nome di Identità.

Identità non come acquisita una volta per tutte, ma intesa come processo, come antropo-poiesi.

Non si nasce uomini, lo si diventa, giorno per giorno, per passaggi, crescite, cadute, riti di iniziazione (come la laurea, il matrimonio, l’investitura dopo un’elezione o una vittoria sportiva). Essere orgogliosi di qualcosa significa riconoscere dei pari e degli inferiori; difficilmente dei superiori.

 

Dall’identità al pregiudizio

Infatti ogni orgoglio, ogni identità, è sempre un confine, più o meno permeabile e riscrivibile, che presuppone sempre un “Altro”. Questa diversità nella migliore delle ipotesi viene tollerata, nella peggiore si tenta di eliminarla. Etimologicamente la parola tolleranza ha in sé il senso della sopportazione; deriva dal verbo latino tollere, inteso nell’accezione di Tommaso d’Aquino riferito alla sopportazione – cioè alla non persecuzione – di confessioni religiose differenti dalla propria. Tollere ha come significato secondario anche quello di distruggere. Questa parte distruttiva e pregiudiziale dell’orgoglio identitario la possiamo ascoltare ogni giorno, indirettamente, dai servizi dei Tg ai discorsi della gente comune. Il linguaggio, soprattutto nell’informazione, crea una prassi psicologica: secondo Paul Grice gli scambi comunicativi sono regolati da una Logica della conversazione. Parte importante di tale logica sono le Implicature conversazionali, cioè tutto quello che si sottintende, i significati reconditi, il non detto. Il rischio maggiore della comunicazione dei mass media è che non esiste una reciprocità: l’ascoltatore subisce le implicazioni senza poterle contestare o chiarire. È facile in questo modo creare un pregiudizio.

 

 Gli italiani negli Stati Uniti

Un esempio che colpisce per unicità è l’idea dell’italiano che si ha negli Stati Uniti. L’idea dell’italiano alla Quei bravi ragazzi” andava e in una certa misura va ancora di moda: catene d’oro, cannoli, ragazze e gangsterismo. Chi ha tra i trenta e i quarant’anni, forse si ricorderà del processo Pizza Connection, conclusosi nel 1987, riguardo al narcotraffico tra Mafia e famiglia Gambino di New York che vide, tra gli altri, collaborare con l’Fbi il nostro Giovanni Falcone; e pochi anni più tardi del definitivo arresto di John “The Dapper Don” Gotti. E ricorderà anche come i “Padrini” venivano considerati: una sorta di pittoreschi fuorilegge, quando non direttamente delle star. Anche negli anni 90, quando il mito del casinò “Flamingo” era finito da un pezzo e con lui quello Rat Pack e di uno stile di vita dorato e tracotante che faceva tanto working class dream, l’immagine del “Don” restava quella di un vincente, di un self-made man che tutto sommato, anche se spaventava, di sicuro affascinava (le magliette di John Gotti sono ancora molto vendute a New York, soprattutto a Brooklyn, il “suo” quartiere). Una generalizzazione questa con cui ultimamente un gruppo di venditori di auto usate, ex gangster, ha fatto fortuna con un programma trasmesso in Italia su Discovery Channel: Carfellas: quei bravi ragazzi” . In ogni puntata i tre soci vendono auto usate, urlano e cuociono salsicce su un barbecue. Il parossismo della macchietta in qualche modo fa superare il pregiudizio. Certo, per un italiano vedersi rappresentato in quel modo è avvilente e sembra che il trittico “Spaghetti, mafia e mandolino” non passi mai di moda; ma la sdrammatizzazione, in una realtà come quella Usa, in cui la discriminazione ha risvolti violenti e sanguinosi (si pensi a tutto il mondo delle gang, in cui il fattore etnico diventa escamotage di violenza e copre le reali cause della rabbia date dalla povertà e dal disagio sociale), per gruppi come gli italo-americani ha aiutato a portare una maggiore integrazione.

L’Italia credo non sia ancora pronta a considerare la questione con ironia. Noi siamo il paese dei campanili e dei campanilismi, delle contrade e dei quartieri, e fino a quando non troveremo più unità e sentimento di accoglienza, diffidenza e aperto contrasto con la diversità ce li porteremo appresso come, poco più di un secolo fa, ci portavamo appresso la valigia di cartone e il cappello in mano. Basterebbe ricordare.

 

 

 

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