La chiave essenziale. Chiesa, lavoro e questione sociale


«Il lavoro è la chiave essenziale di tutta la questione sociale». Con queste parole papa Giovanni Paolo II, testimone di un’esperienza diretta realizzata nella propria vita, apriva l’enciclica Laborem exercensem, punto di sintesi e di partenza per ogni considerazione sulla dottrina cattolica del lavoro.

Ma può avere un senso, o anche solo un minimo interesse, parlare di Chiesa e lavoro? Ovvero intrecciare due realtà ad un primo impatto così distanti e indipendenti? Ammessa una risposta positiva, storicamente come si sono poste le istituzioni ecclesiastiche davanti alla questione del lavoro? Ed oggi, la Chiesa può ancora dire qualcosa di importante ed utile in merito?

Insomma, sempre tante domande a cui non vogliamo dare risposte assolute e acritiche, ma suscitare riflessioni e interrogativi costruttivi.

Nonostante l’apparente ideale lontananza tra queste due entità, la Chiesa è stata una delle prime istituzioni a cercare di sensibilizzare la società civile alla questione del mondo del lavoro. Checché se ne dica, questo è un fatto incontestabile: nel 1891, con la famosa De rerum novarum, papa Leone XIII esponeva per la prima volta il pensiero della Chiesa riguardo appunto alle “cose nuove”, ovvero un mondo del lavoro che, a causa di quel grande processo storico che fu la rivoluzione industriale, stava profondamente modificando la società del tempo.

«La Rerum novarum è innanzi tutto un’accorata difesa dell’inalienabile dignità dei lavoratori (…)», senza lasciarci trascinare da sentimenti confessionali o apologetici, questo passo del Compendio della dottrina cristiana non dice il falso, anzi. L’enciclica di fine ‘800 risulta per i suoi contenuti veramente audace e innovativa: infatti non solo traccia i possibili rischi, con relative condanne, del lavoro e del mondo socialista (come sarebbe stato giusto aspettarsi), ma si scaglia anche contro  le possibili devianze in cui un capitalismo esasperato e senza scrupoli poteva incappare nei confronti della classe operaia. L’importanza ed il diritto di proprietà, il principio di collaborazione tra classi, i diritti dei deboli e dei poveri, gli obblighi di lavoratori e datori di lavoro e diritto di associazione sono tutte tematiche sostenute e difese da Leone XIII. Insomma una via mediana tra la visione prometeica del lavoro tipica della lettura marxista, e tra l’esasperata equazione economista e capitalistica “lavoro=merce”.

Il mondo di oggi però non è certo quello di fine ottocento, ed il conflitto tra capitale e lavoro è stato largamente superato da nuove tensioni. Ma nonostante alcuni localizzati interventi, si avverte un deficit di riflessione teologica e antropologica sul lavoro. Sembrano prevalere, nella prassi concreta dei cristiani che danno attenzione al tema del lavoro, istanze di tipo assistenziale o rivendicativo, ed è carente il discernimento sociale sulle res novae che riguardano il lavoro e i lavori. E’ necessario che la teologia torni ad interrogarsi su quest’ultimo (M.D. Chenu, Per una teologia del lavoro, 1966), ed a ricercare una dimensione poliedrica su un aspetto che tocca sia l’umanità che l’eventuale fede di una persona.

Per Papa Wojtyla era necessario infatti edificare una “cultura del lavoro” capace di portare a sintesi le sue varie dimensioni, da quella personale, a quella economica, a quella sociale. Si ricordi l’icastica osservazione di Giovanni Paolo II nella Laborem exercens: «è il lavoro per l’uomo e non l’uomo per il lavoro», con il conseguente invito a pensare in termini di “ecologia sociale del lavoro”. Quest’idea culturale introdotta dal pensiero del pontefice polacco, il primo papa operaio della storia della Chiesa, è stata sviluppata anche dal suo successore. La prima enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate, ci incoraggia a riprendere una grande riflessione sul lavoro, in una chiave antropologica e sociale.

La Chiesa cattolica quindi esplica oggi giorno una dottrina decisamente all’avanguardia, socialmente il più egualitaria e autonoma possibile. Questa è la teoria…la pratica invece? Qui ci addentriamo in un terreno purtroppo assai insidioso: sia per la difficoltà in sé nell’esprimere delle considerazioni adeguate e pertinenti, dato che la Chiesa è un’istituzione non direttamente e materialmente coinvolta in tale ambito della vita umana, e sia perché il mondo ecclesiale è composto da un variegato insieme di realtà (mi riferisco principalmente ai movimenti) e sensibilità che si schierano in modi spesso alquanto sfaccettati. Un esempio potrebbe essere quel fenomeno che aveva investito negli anni successivi alla seconda guerra mondiale la Chiesa italiana e francese, ovvero quei preti-operai che, sensibili alle questioni del lavoro, cercarono un vicinanza umana e cristiana alle masse di lavoratori che stavano crescendo nella società del tempo (Margotti, Preti e operai, La Mission de Paris dal 1943 al 1954, 2000). Tale esperienza venne in un  primo tempo fortemente condannata dal pontefice Pio XII e dal suo Prefetto della Congregazione dei Seminari card. Pizzarro, dato che si considerava tutto ciò in odore di sensibilità filosocialiste e filocomuniste, per poi essere ammessa ufficialmente dal concilio e da Paolo VI nel 1965 (Politi, Una zolla di terra, 2001). Questo esempio, ad un primo sguardo poco pertinente alle riflessioni precedenti, al contrario può essere d’aiuto per arrivare non ad una risposta o considerazione conclusiva, bensì ad un’impostazione di ragionamento: se nel campo ideale ed astratto la dottrina può esplicarsi e farsi apprezzare per i suoi contenuti nobili ed entusiasmanti, quando però si scende nel mondo reale, subentrano una serie di fattori esterni ed interni che tendono inevitabilmente e parzialmente a sminuire tali posizioni. Anche perché il lavoro molto spesso implica una riflessione politica, e sappiamo molto bene a chi la Chiesa cattolica ha indirizzato storicamente il proprio appoggio politico.

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