Società benestanti come società di diavoli: la favola delle api operose


“Coloro che esaminano la natura dell’uomo, astraendo dall’arte e dall’educazione, possono osservare che ciò che lo rende un animale socievole non è desiderio di compagnia, buon carattere, pietà, affabilità e altre grazie di bell’aspetto: sono le qualità più vili e odiose i talenti più necessari al fine di renderlo adatto alle società più grandi e, secondo il mondo, più felici e fiorenti.”

De Mandeville, libertino temerario e provocatorio vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, ammiratore della tranquilla e apparentemente posata società inglese della fine del seicento, scrive frasi di fuoco a proposito della natura umana, come in questo incipit del suo opuscolo, più volte rivisitato ed ampliato, conosciuto con il titolo celebre de La favola delle api: ovvero, vizi privati per pubblici benefici.

Questa favola si rifà all’antichissima tradizione delle favole educative, dove spesso è adottato l’espediente letterario di caratterizzare il regno delle bestie con qualità umane, e in questo modo raccontare una storia esemplare, espressiva di una morale di fondo. Nell’opera di Mandeville, un poemetto in versi, il rimando alle api, alla loro natura operosa ed ubbidiente che genera nel suo conciliante asservimento il bene comune del perfetto alveare, costituisce un chiaro rimando ad un’immagine adottata sin dall’antichità, ma nonostante questo, ciò che egli introduce nella favola di assolutamente moderno (e soprattutto, di interessante) è la morale conclusiva del racconto: Mandeville osserva come il benessere, la ricchezza e così via non possono prescindere nelle società degli uomini da vizi e talenti che i più (oggi come ieri) definirebbero odiosi ed immorali. La stessa socialità negli uomini si genera non da un sentimento morale innato, come sostenevano i pensatori delle accademie più prestigiose del tempo, ma piuttosto dal beneficio che dal parteciparvi può trarre il singolo. Mandeville vuole mostrare in modo stringente come vi sia un aut-aut, o si sceglie una società virtuosa ed innocente, ma priva di benessere, o – come nei fatti era già l’Inghilterra del XVI secolo – si cercano le comodità e l’industriosità di una nazione benestante (i consumi, la crescita di oggi sarebbero da nominare con nomi meno vacui e asettici), e allora non si può prescindere dal vizio e dall’astuzia degli uomini che in essa vivono.

Questo racconto è una via efficace per descrivere nei suoi tratti fondamentali ciò che storicamente è avvenuto tra la fine del XIV secolo e il XVI secolo (ma noi potremmo dire, è proseguito sino ad oggi): un continuo processo di espansione e potenziamento ad ogni livello della società che non è neutrale o ininfluente, ma che richiede un mutamento profondo negli uomini che lo vivono, attivamente o passivamente che sia. Infatti questi devono, per così dire, adattarsi a vivere in condizioni che appaiono in qualche modo inevitabili perché sempre più diffuse e necessarie al nuovo benessere. Così se molti di loro, specie nelle città, assecondano attivamente questa tendenza, più d’uno fra classi ancora legate alla scorsa età del mondo, quelle contadine e della vecchia aristocrazia, provano un’istintiva repulsione. Allo stesso tempo i moralisti o i loro consimili sempre più numerosi insorgeranno contro la corruzione generale, la decadenza dei costumi, persino l’ingiustizia sociale, ma tutti questi uomini non hanno che una vista assai corta, perché non intendono come quel benessere giudicato da tutti come buono non abbia altra fonte che quei vizi che loro considerano un male profondo.

Questa era l’arte politica, che reggeva
un insieme di cui ogni parte si lamentava.
Essa, come l’armonia nella musica,
faceva accordare nel complesso le dissonanze.
Le parti direttamente opposte
si aiutavano a vicenda, come per dispetto
[…] il lusso
dava lavoro a un milione di poveri,
e l’odioso orgoglio a un altro milione.
L’invidia e la vanità
servivano l’industria, la volubilità
era la ruota che faceva muovere il commercio.

Non è questo un macchinario perfetto? Lo è evidentemente, avrebbe detto Mandeville, ma voi con discorsi desueti volete incepparlo, proprio come quei moralisti di cui parlavamo sopra. Chiedete che vi sia un trattamento meno faticoso per i lavoratori, chiedete che vi siano delle garanzie giuridiche ad ogni angolo, delle case d’accoglienza etc. Lui in questo impossibile dialogo vi replica pressappoco così: “Benissimo, se saprete imporvi naturalmente accetteremo le vostre istanze, di per sé superflue al progredire del benessere dello stato, se non dannose. Esse saranno incorporate da questo sistema di armoniose dissonanze, ma solo quando esso potrà resistere a tale indebolimento, e solo fintanto che potrà resistervi; infatti anche questo sarà un costo sostanzioso per gli uomini i cui vizi sono virtuosi, generando invece vizi davvero mortali, quali ad esempio l’ozio. Esse, comunque sia, mi appaiono pericolose per l’oggetto stesso di cui si occupano, poiché potrebbero inceppare, presto o tardi, questa macchina perfetta che abbiamo messo in moto. E allora, come le api, avrete di che pentirvi!”.


Ma per contemplare compiutamente questa macchina perfetta che è la società moderna manca ancora un ingrediente fondamentale, ovvero il moderatore di questo procedere disordinato ma infine benefico, che è l’intelligenza sistematica e direttiva dello stato (e questo Mandeville non lo ignora, semplicemente lo lascia in secondo piano). In tutto questo processo di potenziamento è lo stato il solo a gettare le condizioni e ad assecondare (a discapito dei nemici politici e degli inconvenienti economici) tale prosperità crescente.
L’azione politica statale è sempre e comunque stata la principale propulsione a questo benessere generalizzato che trova la sua fonte naturale nei vizi e nel desiderio. In fin dei conti potremmo dire che essa non agisce in nulla diversamente da quei cittadini viziosi, se non per il suo raggio d’azione, ben più ampio di quello dei singoli. Essa infatti non mira mai a “moralizzare” i suoi cittadini, a trattenerli dall’arricchirsi o ad occuparsi dei loro costumi nei limiti posti dalla legalità, poiché il loro arricchirsi è anche sempre un nuovo beneficio per lo stato stesso, che è di fatto legato nelle sorti a quelle dei cittadini più ricchi e ai loro profitti.

Non si intende necessariamente uno stato centralista ed autocratico. Basta infatti osservare come storicamente l’Inghilterra, isola popolata da “barbari” ancora agli albori del ‘600,due secoli dopo si trovava a tenere sotto il proprio dominio un impero di portata mondiale. Le corporazioni e le compagnie che resero fruttuosa come mai questa espansione ebbero sempre l’appoggio attivo dello stato, poiché le loro sorti erano accomunate indissolubilmente. Testimone esemplare del fondamento profondo della logica statale è Kant, che aveva ben presente questo punto critico e lo ammette nelle sue riflessioni come realtà con cui fare necessariamente i conti, dimostrando di aver ben appreso la lezione di Mandeville. E’ infatti questo il problema centrale del contrattualismo, che lui eredita, ovvero secondo quale principio fondare uno stato muovendo dall’interesse divergente e conflittuale degli individui (atomi sociali). Essere parte di uno stato deve infatti essere fruttuoso ai fini dell’individuo (che essi siano virtuosi o meno), purché questo non metta in pericolo l’esistenza dello stato stesso (il ché non sarebbe ragionevole, se lo stato può fornire dei benefici inequivocabili). Kant scrive così nella sua opera, Per la pace perpetua:

“Il problema si riduce a questo: come ordinare una moltitudine di esseri razionali, che desiderano tutti insieme sottoporsi per la propria conservazione a pubbliche leggi alle quali ognuno nel segreto del suo animo tende a sottrarsi, e come dare a esseri di tal fatta una costituzione tale che, malgrado i contrasti derivanti dalle loro private intenzioni, queste si neutralizzino l’una con l’altra, di maniera che essi, nella loro condotta pubblica, vengano a comportarsi come se non avessero affatto cattive intenzioni.”

Ovvero, la legalità deve avere a che fare con una società di “diavoli razionali” (e razionali qui sta inequivocabilmente per astuti e calcolatori) e riuscire ad ordinarli affinché essi non la distruggano ma piuttosto portino ad essa pubblici benefici. Evidentemente non deve importare come sono i singoli privatamente, ma bisogna costringerli pubblicamente a non essere di danno per il benessere generale nei loro vizi. Si noti come Kant non intenda minimamente spingersi nell’ambito della morale. Questo principio è esemplarmente seguito dagli ordinamenti legali, e sino ai nostri giorni in ogni legge fondamentale degli stati (un esempio eclatante e vicino a noi è quello della legge contro l’evasione fiscale, di massimo danno per il benessere generale e per gli stessi individui). Da questo stesso principio regolatore discende anche la laicità dello stato (e non viceversa).

In fondo – e in questo sia Mandeville che Kant concorderebbero grandemente – gli uomini sono mossi esclusivamente (o comunque vanno considerati in generale in tal modo) dal beneficio che ne possono trarre individualmente e dunque l’unico sistema possibile e auspicabile per regolare la vita associata è quello che riesce a tollerare e convogliare questa voluttà propria degli uomini, ineliminabile e necessaria. Così, sia Kant che Mandeville, ugualmente, sosterrebbero che quell’età dell’oro dove virtù e innocenza prevalevano negli uomini non è per nulla desiderabile e non può tantomeno essere intesa come l’apice della storia umana. Una massima a mio parere significativa che si può trarre da entrambi questi autori (ma se ne potrebbero esaminare molti altri) è questa: potete essere anche virtuosi (qualunque stramba idea voi abbiate della virtù), comunque, a noi non importa.Dunque una posizione di totale indifferenza rispetto alla virtù nell’ambito propriamente politico, né ad essa è sostituita la virtù come intesa da Machiavelli, più complessa e rara, non posseduta da chiunque ma propria solamente di alcuni grandi uomini e dei buoni costumi.

La valutazione qui intesa riduce l’uomo (chiunque egli sia) a possessore di queste due uniche “virtù” necessarie: il desiderio originario di ottenere benefici e l’intelligenza calcolante (necessaria per decidere come ottenere quel beneficio che si propone, per quanto becero sia). Addirittura, ci vuole avvertire Mandeville, una virtù umana intesa in altro senso che questo potrebbe essere dannosa al benessere generale, in quanto forza frenante del progresso o addirittura possibile forza disgregatrice della convergenza degli interessi calcolanti, così da inceppare questo perfetto macchinario. Come ammoniva quel sant’uomo dei tempi nostri: “Siate affamati, siate folli”. Non sosteneva niente di così diverso, anche se in modo ben più ambiguo.

Concludo con una domanda riguardo alle circostanze che viviamo noi oggi, poiché credo che questo aspetto che Mandeville coglieva allora nella sua opera permanga immutato come cardine necessario della società in cui ci troviamo a vivere. Rispetto a questo approccio, che propone un agire politico per diavoli calcolatori, oggi vediamo un trionfo di appelli all’onestà, ai valori, ai diritti e così via. Ma davvero è credibile che per governare società così vaste e potenti come le nostre sia necessaria una qualche forma di virtù e rigore morale? Non è questo piuttosto un vulnus al governo e al progredire di una certa società perché per essa superfluo?

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