Dall’Unione Europea all’Europa dei leader


Washington, Wilson, Mazzini, Hugo, Cattaneo, Churchill e Keynes hanno, in tempi diversi, decantato le lodi degli “Stati Uniti d’Europa”: una forte unione politica europea sul modello americano, da realizzarsi affinché finissero le guerre che da sempre laceravano le membra del vecchio continente. Non si può negare che questa formula sia stata una delle basi portanti dell’odiena Ue.

Il tema dell’unione torna attuale perché, dopo la crisi del 2008, ci si chiede se davvero l’Ue sia in grado di decidere dei propri bilanci. Ma soprattutto se consideri davvero quei bilanci come suoi: è proprio qui che Ue e Usa, dotate della comune radice “union”, dimostrano la differente declinazione politica che viene data a tale parola.

Negli Stati Uniti la crisi ha provoca l’impennata del debito pubblico e subito divampano i toni allarmistici, che Obama cavalca per spingere il parlamento a decidere in fretta sulla questione. Parlamento che però rimane diviso nettamente dal perenne bipolarismo ideologico americano: sevizi e investimenti sono essenziali per la ripresa o insostenibili voci di bilancio? L’impressione è che, bloccati in questa impasse di pensiero, gli Stati Uniti non ne escano vivi.

Alla fine tuttavia, dopo qualche mese di concentrato thrilling politico, la questione viene risolta e nonostante un declassamento della sola S&P il problema viene rimesso nel cassetto.

In Europa la realtà della situazione greca vede l’emergere di un’oligarchia di larghe intese formata dai leader degli Stati membri, che regalano strette di mano concilianti alle telecamere, condite da sorrisi che sussurrano «ne usciremo e ne usciremo insieme».

Sono passati anni: nessuno crede ancora nella capacità della Grecia di riprendersi, martoriata dalle austerity imposte dalla Germania. L’Italia non è fuori pericolo, la Spagna rifiuta la ricetta tedesca perché non può permettersela e le impietose agenzie di rating continuano a declassare anche i Paesi più insospettabili. Ma se Nicolas Sarkozy ha da tempo stretto la mano alla cancelliera Merkel sposandone la linea conservatrice, lo stesso non si può dire di Mario Monti, che torna a far sentire la voce dell’Italia. Una voce che dice crescita, più che austerity.

I confronti nell’Ue insomma ci sono, ma in vertici straordinari totalizzati dalle personalità politiche dei premier. L’Europa in sé, come istituzione terza, si vede ben poco.

Il rischio maggiore di questo eccessivo leaderismo è che la dialettica politica europea si trasformi in un’arena di capi di Stato che danno la precedenza ai propri interessi elettorali invece che agli interessi dell’Europa. La quale, proprio per questo, può essere sempre rimessa in discussione: neanche pilastri come Schengen sono al sicuro.

Il fatto è che le aule legislatrici che decidono le politiche americane in Ue non ci sono ancora. Nonostante la moneta unica e la limitata cessione di sovranità costituzionale degli Stati verso il Parlamento europeo, questo rimane ancor oggi embrionale, incapace di sovrapporsi ai personalismi dei premier. E di offrire all’Unione una concreta linea programmatica da seguire.

Il risultato è la debolezza generale dell’intera idea-Europa, che lasciata da parte perché non metta becco nei debiti degli Stati membri rimane impotente davanti ai boicottaggi greci dei prodotti tedeschi e olandesi e davanti ai neofascismi ungheresi. Lascia che il secessionismo scozzese sia un affare interno del governo Cameron e che il conflitto libico sia un affare interno dei jet di Sarkozy.

Il problema è che i leader cambiano: essendo l’Europa formata da democrazie dalla governance più o meno stabile, il ricambio politico è continuo e avviene in date diverse. Oggi Sarkozy è con la Merkel, ma chi può dire come cambierà la situazione quando, a breve, ci saranno le elezioni in Francia? Un nuovo premier socialista significherebbe una diversa forma mentis della seconda potenza continentale, quindi nuovi tavoli a cui sedersi in nuovi summit, dove una Merkel prima applaudita da Sarkozy si potrebbe trovare accerchiata da Monti e Hollande.

Il mosaico europeo che ne esce è mutevole e scoordinato, il contrario cioè della meta verso la quale l’Unione procede da quasi un secolo.

Gli Stati Uniti d’Europa rimangono un’utopia finita con la crisi, dopo la sconfitta del progetto di costituzione europea e la ritirata di Lisbona? Probabilmente sì, ma dovremmo ormai aver capito che decontestualizzare una pratica politica è difficile se non impossibile. Se il Texas oggi accetta di essere coinvolto nel più generale quadro americano di depressione, nonostante sia uno stato economicamente fiorente, è perchè gli Usa hanno una certa storia: uniti da una rivoluzione settecentesca, attraversano una guerra civile in cui vincono l’unità e la speranza di Lincoln, che ritrarrà il conflitto come rigeneratore della comune identità americana.
L’Europa invece solo fino a un nonno fa, per usare una formula di Benigni, era martoriata da conflitti ancora oggi poco somatizzati, ferite aperte da cui continuano a sgorgare nazionalismi un tempo aggressivi e ora paranoici.

Ma il vuoto di concezione lasciato in Europa è un foglio bianco che può essere ridisegnato. Non è tardi per affermare che l’Europa può ancora convincere se non ha paura di mostrarsi presente quando si parla di questioni scottanti, nel luogo che le è più idoneo e stabile per parlarne: l’Europarlamento. In un momento di crisi come questo l’euroscetticismo è in gran parte quello non idelogico dell’affamato e del disoccupato, che pensa che l’Ue sia solo un affare bancario. Uno scetticismo facile da convertire in fiducia, se gli si da una mano a farlo. La crisi è dura, ma da essa si può rinascere più forti, rigenerati e uniti. Oggi l’Ue non può fare suoi gli Usa, ma può fare suo Lincoln.

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